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Sforza Oddi

Commedie. L’Erofilomachia, I morti vivi, Prigione d’amore

A cura di Anna Rita Rati

Perugia, Morlacchi, 2011, pp. 648, 19 euro
ISBN 9 788860 744357

Insigne giurista (e docente di diritto civile a Perugia, Macerata, Pisa, Pavia, Padova e Parma), Sforza Oddi (Perugia, 1540 – Parma, 1611) è famoso presso i suoi contemporanei per la varietà di interessi e competenze che lo contraddistingue. In grado di dissertare con estrema disinvolta padronanza «de motu, de tempore, de elementis, de anima» (come dice, durante il suo elogio funebre, l’allievo Girolamo Figini), Oddi deve la sua fama anche al grande successo riscosso dalle molte messe in scena delle sue tre commedie: L’Erofilomachia (1572), I morti vivi (1576) e Prigione d’amore (1590). Una passione, questa per il teatro comico, che gli costa un po’ cara (Gregorio XIII, per esempio, rimuove la sua candidatura a uditore della Rota Romana) ma cui tuttavia lui si tiene ben lungi dal rinunciare, tant’è vero che si dedica attivamente all’allestimento dei suoi lavori almeno fino al 1590.

A caratterizzare le sue commedie, che contano fra i propri estimatori anche Torquato Tasso (presente a una rappresentazione dell’Erofilomachia avvenuta a Pesaro nel 1574), è un’abile commistione di materia ridicola e materia grave, elemento comico ed elemento patetico, o larmoyant, come lo chiama la curatrice Anna Rita Rati (benché questo aggettivo, riferito a testi cinquecenteschi, ci paia vagamente anacronistico). Obiettivo dell’autore è quello di potenziare la «dolcezza del diletto» tramite l’«amarezza delle lagrime», così si legge nel Prologo alla Prigione d’amore: «l’amaro del pianto fa più gioconda la dolcezza del riso», scrive Oddi parafrasando Orazio. Questo Prologo, in realtà, altro non è che un autentico manifesto di poetica in forma di contenzioso fra la personificazione della Tragedia e quella della Commedia. Replicando agli attacchi della Tragedia, che l’accusa in pratica di “rubarle il mestiere” e di muovere «gli affetti e le lagrime» del pubblico mostrando vicende piene di «eroica virtù», la Commedia sostiene che in ogni popolo ci sono «tre condizioni di persone»: «potenti, che si riputano felici […]; miseri, che son disperati quasi di mai più risorgere» e infine «mezzani, che né per l’una, né per l’altra faccia di fortuna si conturbono […]. Or, – conclude – lasciando da parte questi ultimi, che non han di bisogno né de’ vostri avvertimenti, né de’ miei, de’ primi lo specchio siete voi, de’ secondi son io». In una classifica di tutti gli spettacoli che possono insieme «utile e sollazzo recare», la Commedia – si legge nel Prologo all’Erofilomachia – occupa il primo posto, perché in essa, «come in uno specchio di lucidissimo cristallo», si può vedere riflessa «l’immagine della vita nostra e della verità».

A un’accurata e ricca introduzione (in cui la Rati, fra l’altro, parla della vita e delle opere dell’Oddi, del suo stile, dei suoi modelli di riferimento e delle differenze che intercorrono fra i suoi tre lavori teatrali), seguono i testi delle commedie: e se dell’Erofilomachia le edizioni moderne non mancano (Benedetto Croce l’aveva pubblicata nel 1946, seguito da Aldo Borlenghi nel 1959, e poi da Emilio Faccioli), dei Morti vivi e della Prigione d’amore non ne esistono affatto. Ed è perciò questo volume ad incaricarsi di colmare la lacuna.

Ambientata a Firenze, l’Erofilomachia (ovvero Duello d’Amore e d’Amicizia), s’intitola così perché l’autore volle esprimere con una sola parola «i varii effetti e contrarii accidenti che nascono tra due amici, amanti amendue d’una medesima giovinetta». Ecco quindi Leandro che ama, riamato, Flaminia ma non può sposarla per via della rivalità che separa le loro due famiglie: allora scappa di casa (abita a Genova), prende la via del mare, viene rapito dai corsari (nelle cui mani rimane per tre anni e mezzo) e, riscattato da Amico per cento scudi d’oro, lo segue a Firenze, dove si fa assumere come servitore dal padre di Flaminia (che è anch’egli fuggito da Genova, insieme alla figlia, ormai da cinque anni). Gli ingredienti, sapientemente mescolati, sono vari: c’è l’antefatto romanzesco, il travestitismo (Leandro non si fa riconoscere da Flaminia e da suo padre Oberto, e lavora a casa loro facendosi chiamare Fabio), la beffa ai danni di un vecchio matto cui Oberto ha promesso di dare in sposa la figlia, una cortigiana di buon cuore (innamorata di Amico, che è a sua volta innamorato di Flaminia), una ruffiana tutta casa e chiesa, un miles gloriosus detto capitan Rinoceronte, un paio di servi astuti e un servo sciocco. I modelli? Innumerevoli, da Terenzio fino a Benedetto Varchi. La Rati cita, fra gli altri, I tre tiranni di Agostino Ricchi (1533), l’Amor costante di Alessandro Piccolomini (1540), Gli ingiusti sdegni di Bernardino Pino da Cagli (1553) e la Suocera del Varchi (1569). Ma anche qualcosa del Furioso dell’Ariosto e della Liberata del Tasso. E aggiungerei senz’altro la Mandragola di Machiavelli, le commedie dell’Aretino e, forse, indietreggiando un po’ nel tempo, anche Il fiore di Dante (vale a dire il Roman de la Rose).

Discorso a parte meriterebbero poi le peculiarità linguistiche del teatro dell’Oddi, che passa dal linguaggio aulico, di stampo petrarchesco, con cui i protagonisti danno voce alle loro passioni, ai linguaggi propri dei servi: si tratta di una «struttura binaria – spiega bene la Rati – dominata dalla dialettica fra monolinguismo delle passioni e plurilinguismo dei tipi e della degradazione sociale». Leggendo le tre commedie, in effetti, viene da pensare che l’Oddi non fosse solo un grande conoscitore ed estimatore del teatro colto, ma anche un appassionato frequentatore di spettacoli di comici dell’arte. Basti pensare alla vivacità di certi dialoghi fra il vecchio matto Ippocrasso e il suo servo Stempera, o fra il capitan Rinoceronte e il suo servo Diluvio.

Davvero moderno e anticonvenzionale è inoltre il modo in cui l’autore delinea le sue protagoniste femminili. Se è innegabile che, nell’Erofilomachia, Flaminia appare un personaggio piuttosto passivo (più approfondito è il carattere della cortigiana Ardelia), colpiscono molto, tuttavia, nei Morti vivi e nella Prigione d’amore, il coraggio, l’intelligenza e la generosità delle protagoniste: nei Morti vivi, Alessandra (sotto false sembianze) intercede affinché il giovane che lei ama da sempre (e che la riama, ma la crede morta) sposi la donna cui lei è in debito della vita; nella Prigione d’amore, invece, Erminia (travestita da suo fratello gemello Lelio) si fa chiudere in carcere e condannare a morte per salvare la vita a Flaminio, il giovane da lei amato, e anche a Lelio.

Le figure femminili, così, spiccano di gran lunga su quelle maschili (spesso deboli), per la loro tenacia e la loro forza d’animo. Di commedia in commedia, perciò, le ragazze acquistano sempre più spessore, e nello stesso tempo le scene comiche occupano sempre più spazio: nella Prigione d’amore, infatti, si potrebbe dire che l’elemento performativo finisce quasi con l’avere la meglio su quello rappresentativo. Non a caso, tanto è complicata la trama dell’Erofilomachia, così è semplice e lineare quella della Prigione d’amore, dove a dominare paiono essere le vere e proprie maschere del capitano Bellerofonte e del pedante Ermogene.

Una produzione teatrale esigua, quindi, quella dell’Oddi, ma molto raffinata, divertente, vivida, originale e interessante: le sue commedie meritano senza dubbio di essere più conosciute e anche rappresentate, vista e considerata la loro evidente ed eccezionale scenicità; con alcuni personaggi che, da un momento all’altro, sembra che siano sul punto di uscire fuori dalla pagina scritta e improvvisare un lazzo, così su due piedi, di fronte al lettore.

 

di Giulia Tellini


La copertina

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