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«Duellanti», a. X, n. 74, dicembre 2011
Mensile di cinema e [aperture]

«Duellanti», a. X, n. 74, dicembre 2011, € 6.00, 120 pp.
ISSN 1724-3580

Unico protagonista della sezione “radiografie” è Aki Kaurismäki, con il suo ultimo Miracolo a Le Havre. Carlo Chatrian, Federico Pedroni e Ivan Moliterni analizzano il film, mettendolo in relazione con i precedenti lavori del regista finlandese. Se per Chatrian Kaurismäki recupera la lezione del cinema classico, affrontando il tema dell’immigrazione clandestina e aprendosi a una prospettiva comunitaria, per Pedroni Le Havre racconta una «parabola solidale senza il peso della metafora, ma con uno sconfinato amore per i personaggi e le loro scelte morali». Pur tenendosi lontano da citazionismi cinefili, lo stile senza tempo di Kaurismäki usa un’ambientazione francese per conferire alla pellicola tonalità e respiro da cinema classico, sfiorando Clair e Tati, Melville e Becker, omaggiando direttamente l’opera di Bresson e quella di Carné. Moliterni si sofferma sia sui contenuti del film che sullo stile del regista: per il critico, i riferimenti al realismo poetico francese degli anni Trenta appaiono più che espliciti. Miracolo a Le Havre conferma una maniera unica di agire dentro la realtà, vicina ai lavori precedenti. Secondo il giornalista il film ha il pregio di intessere una ragnatela di riferimenti intertestuali, esprimendo soprattutto uno sguardo sul reale e provando a ipotizzare una soluzione alternativa al tema dell’immigrazione.

In “incontriepercorsi” Luca Barnabé e Fabio Vittorini prendono in esame Faust di Aleksandr Sokurov, insignito del Leone d’Oro alla 68° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Barnabé approfondisce l’aspetto prettamente estetico e nota come il maestro russo metta in scena un tessuto visivo-visionario soprattutto pittorico. Riportando le affermazioni del regista, Barnabé ricorda al lettore come l’ispirazione artistica che ha generato il film derivi innanzi tutto dalla pittura europea dei primi decenni dell’Ottocento, in particolare da quella tedesca. I colori, i volti dei personaggi, l’immagine della città e i monumenti di vita quotidiana si riferiscono a quel tipo d’iconografia. Evidenti sono anche i riferimenti ai fiamminghi del Quattrocento e Cinquecento, come Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel il Vecchio. Vittorini, invece, ripercorre a grandi tratti la lunga storia degli epigoni letterari, degli adattamenti e delle immagini riferite al patto di Faust, considerato come mito per eccellenza della modernità. Partendo da Goethe, dimenticandosi però del capolavoro di Christopher Marlowe, Vittorini elenca i principali adattamenti musicali e cinematografici di un’opera che non appare semplicemente come un testo drammatico, «bensì come un grande laboratorio del pensiero, intento a elaborare un passaggio epocale irreversibile». Secondo il redattore, Sokurov arriva al cuore dell’opera di Goethe, nonostante le infinite variazioni nella trama e la scelta coraggiosa di posizionare la vendita dell’anima solo a mezz’ora dalla fine. L’approccio teatrale, fortemente recitato, con dialoghi alti, talvolta iperletterari e baroccheggianti, ci ricorda che si tratta di un film russo, «nato cioè in alveo dov’è ancora possibile credere al potere della scrittura, della letteratura, della parola tout court». Sempre nella stessa sezione, Rocco Moccagatta analizza brevemente lo spielberghiano Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno. Sognando di riacciuffare il brivido incommensurabile provato dal fumettista belga Hergé quando tracciava il suo mondo sulla carta, il regista americano gioca una partita ambiziosa mescolando la motion capture e l’animazione digitale in 3D. Mentre Roy Menarini propone un articolo su Melancholia di Lars von Trier, Alberto Pezzotta e Franco Marineo si dedicano a Paolo Sorrentino. Per il primo This Must Be The Place non risulta un esercizio manieristico, ma «un tentativo di percorrere territori inconsueti per il nostro cinema. Il regista riscatta qualche sovrabbondanza con una potenza visiva fuori dal comune e un protagonista che accetta il peso della memoria». Di ben diversa opinione sembra il collega Marineo: prendendo una direzione opposta rispetto al Crialese di Terraferma, «Sorrentino ottiene il medesimo risultato, smarrendo l’equilibrio dei film precedenti: è come se il regista italiano non determinasse il grottesco con le sue scelte registiche, ma lo offrisse come un ‘a priori’ che rende ridondante l’esercizio del proprio stile». La rivista torna a puntare l’attenzione su Una separazione di Asghar Farhadi, mettendolo a confronto con la sua pellicola precedente, About Elly.

Grazie alla messinscena de La discesa di Orfeo e Improvvisamente l’estate scorsa firmata da Elio de Capitani per il Teatro Elfo Puccini di Milano, «Duellanti» riflette sul genio letterario di Tennessee Williams. Rossana Foresti, intervistando il regista teatrale, espone con vivida passione la poetica dello scrittore americano. «I corpi e le anime che si raccontano nelle sue opere cercano nel sogno e nell’illusione un magico antidoto contro la crudeltà e l’ineluttabile passaggio del tempo, ma questa fuga li condanna alla solitudine e alla sconfitta. I conflitti che i personaggi riferiscono al pubblico non sono quindi solo narrati, ma anche visualizzati tramite i simboli, le immagini e il linguaggio dei corpi che trasformano l’opera in una realtà stratificata e complessa che non può accontentarsi del realismo». Per la Foresti, la Grande Depressione, il dopoguerra, il maccartismo, la corsa al progresso, il senso dell’esistere, la ricerca dell’identità e le discriminazioni legate all’essere omosessuali in un’epoca di chiusura e perbenismo dilagante sono temi che si intrecciano alla biografia dell’autore ed entrano prepotentemente nei copioni. «Lady, Blanche, Maggie sono solo alcuni dei volti dietro i quali si cela quello del drammaturgo e il mascheramento della propria sessualità è la risposta creativa che egli ha saputo fornire al profondo bisogno di parlarne in un’epoca di estremo rigore, pesante censura e rigido perbenismo». Le storie narrate da Williams sono avventure solipsistiche in cui l’incontro con l’altro, se avviene, è invischiato all’interno di passioni e pulsioni individuali che lo rendono estemporaneo e incompleto. «L’unica liberazione possibile è la morte, la vita è lotta e inevitabile solitudine». In “immaginemondo”, Marco Chiani dedica alcune pagine a Michael Mann, in particolare sulla sua master class tenuta allo scorso Festival di Roma. In questa occasione il regista americano ha tracciato i punti salienti di un’ideale mappa attraverso la quale raggiungere il cuore di un’opera che non assomiglia a quella di nessun altro autore, «tra ostinata ricerca di realismo e afflato romantico, pragmatismo e nuove tecnologie».

L’articolo di argomento extracinematografico più interessante da rilevare risulta quello firmato da Matteo Bittanti su Marshall McLuhan e sulle sue osservazioni a proposito degli avanguardistici libri elettronici, attualmente soppiantati dai nostri ebook.


di Francesca Valeriani


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