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Zeynep Oral

Leyla Gencer. Il canto e la passione


Milano, Ugo Mursia Editore, 2011, pp. 320, euro 22
ISBN 978-88-425-4802-7

Una biografia di Leyla Gencer, a firma Franca Cella, era già uscita nel 1986. Diversi sono gli intenti di questo volume, scritto e pubblicato in lingua turca sei anni più tardi e tradotto in inglese nel 2008, all’indomani della morte del grande soprano. Ora è disponibile l’edizione italiana: elegante, di formato non maneggevolissimo, corredata da un suggestivo e ramificato apparato fotografico (immagini di scena e istantanee di vita privata), nonché da una meno rigorosa appendice cronologica; e la diversità d’imposto – rispetto al volume di Franca Cella – rendono scusabili una serie d’imprecisioni altrimenti non sempre da giustificare. Al contrario della Cella, infatti, Zeynep Oral non è un critico musicale: è una giornalista di riferimento nella vita culturale della Turchia, che nel suo libro si tiene lontana da affondi musicologici e riflessioni storico-critiche per puntare, con occhio di reporter, sulla narrazione delle vicende turche nella seconda metà del Novecento in parallelo con la parabola artistica della maggior cantante lirica che quel paese abbia mai avuto (o, almeno, la più grande tra quelle cui fu concessa una carriera al di fuori della propria nazione).

 

In questa prospettiva il momento più suggestivo è il breve prologo, inevitabilmente assente nella stesura originaria del volume, che racconta – con viva ma asciutta partecipazione, e capacità di narrare quasi per immagini – il funerale in nave della primadonna, con lo spargimento di ceneri nel Bosforo: una situazione che evocherà al cinefilo E la nave va di Fellini, ma al melomane non può che rimandare alla memoria l’urna cineraria di Maria Callas e il suo ultimo viaggio attraverso le acque dell’Egeo. È un modo per entrare a distanza, in attesa che l’autrice affronti poi la questione nel corso dei capitoli, in quella rivalità Callas/Gencer (assai più motivata, data la maggiore similarità di repertorio, di quella Callas/Tebaldi) leggibile anche come un’estrinsecazione canora degli eterni conflitti greco-turchi. Tramontata Maria, e solo allora impostasi in via definitiva Leyla, lo scontro tra le due nazioni troverà ulteriore replica nel dualismo Gencer/Souliotis: ma di questo il libro solo fuggevolmente dà conto.

 

Terminato il prologo, l’autrice scandisce in svariate decine di brevi e brevissimi capitoli l’esistenza di Leyla Çeyrekgil, poi Gencer, raccontandone – più che «il canto e la passione», come recita il sottotitolo dell’edizione italiana – quella «story of passion», come forse più congruamente si legge nella versione inglese del libro, che puntellò la sua esistenza pubblica e privata. L’uso del flash-back movimenta la narrazione: il primo capitolo ondeggia tra Leyla bambina sulle colline di Istanbul e la giovane Leyla – l’effettivo anno di nascita della Gencer resta un mistero, né il libro contribuisce a risolverlo – che nell’agosto 1953 fa il proprio esordio internazionale, dopo tre anni di compagnia stabile nel Teatro di Stato ad Ankara, in una Cavalleria rusticana all’Arena Flegrea di Napoli. D’altro canto, il costante riferimento alla storia della Turchia contribuisce a conservare un andamento “orizzontale” al racconto, e consente di prender confidenza con personaggi di spicco, ma non familiari al lettore italiano: dal poeta Nâzim Hikmet al critico e scrittore Metin And, dal musicista Necil Kazĭm Akses al cantante-impresario Aydĭn Gün.

 

Tra testimonianze di prima mano – Riccardo Muti (la cui carriera iniziale incrociò più volte la parte conclusiva della carriera della Gencer), Lorenzo Arruga, la stessa Franca Cella – e ricostruzioni soggettive dell’autrice, c’è anche spazio per la riproposizione (non integrale) dell’ampio ritratto di Rodolfo Celletti Il trono si addice alla Gencer, che, pubblicato nel 1972 sulla rivista Discoteca, resta il più eloquente contributo critico e la più fine indagine psicologica sull’arte canora del soprano turco. Qui ritroviamo, per bocca della diretta interessata (mentre Celletti parrebbe almeno in parte dissentire), la vexata quaestio di una cantante stritolata dalla Storia: un soprano costretta a vivere la propria stagione migliore – gli anni Cinquanta – all’ombra del monopolio callasiano (con l’etichetta di sostituta di lusso e abile epigona, ma non di concreta alternativa alla Callas) e assurta allo status di Divina a metà del decennio seguente, quando lo strumento genceriano già presentava qualche crepa. Ma non è questa l’angolazione del volume, d’altronde reticente pure sull’altra grande contraddizione – anch’essa conseguenza dell’ostracismo callasiano – della carriera della Gencer: l’assenza di un’attività discografica, al di là di una manciata di arie incise per la Cetra nel ’53. Con l’andar del tempo, i cosiddetti dischi pirata hanno poi colmato molte le lacune (tra le interpretazioni imprescindibili manca all’appello forse il solo Poliuto): ma lo scandalo resta.

 

Tra molte affettuosità e qualche imprecisione (non è vero che Antonietta Stella – è lei il soprano che la Oral evita di nominare – dopo aver “scippato” alla Gencer l’Aida dell’inaugurazione scaligera 1956 non cantò più alla Scala) il libro non svela grandi cose ai genceriani. È però utile a diffondere tra i non melomani l’arte di una primadonna tra le massime del ventesimo secolo e, per la stampa turca, dovrebbe rappresentare una presa di coscienza: dalla fine degli anni Cinquanta la Turchia fu ingrata con Leyla Gencer. Ma soprattutto serve, pure agli addetti ai lavori, a capire che ci fu una Callas turca, che – in modo ovviamente diverso – fu non meno grande dell’originale greco. E oltretutto non conobbe, nella sua grandezza, né rotocalchi scandalistici né armatori plutocrati.


di Paolo Patrizi


La copertina

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