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Il teatro inglese tra Cinquecento e Seicento. Testi e contesti

A cura di Susan Payne e Valeria Pellis

Padova, CLEUP, 2011, pp. 448, euro 28
ISBN 9788861297890
                                 

Da sempre la figura di Shakespeare predomina gli studi critici sul teatro inglese del suo tempo e delle epoche successive. Merito indubbio della statura artistica dei lavori a lui attribuiti; ma anche scotto da pagare per una critica rivolta a contesti geografici, culturali e sociali troppo ristretti. Per fortuna gli studi di matrice neostoricista e culturologica degli ultimi trenta anni hanno permesso di superare tale limite, mettendo in evidenza che anche Shakespeare era figlio del suo tempo e della sua cultura.

 

Dalla fine degli anni 1980 si è sempre più riconosciuta l’effettiva azione dei “teatrogrammi” (Louise George Clubb) sull’opera dei drammaturghi europei del Cinque e Seicento, frutto di quel “meticciato interlinguistico e interculturale” (Siro Ferrone) che avvicinava molto più di oggi gli stati del vecchio continente. Si è iniziato a considerare quella che riteniamo la variabile più importante e cioè la vita materiale del teatro, esclusa per definizione dagli studi filologico-letterari, tutti impegnati a guardare verso l’alto del gòlgota del testo-centrismo. Solo lo sguardo dal basso sui fatti teatrali – guardati come elementi della vita reale e non solo di quella letteraria – permette di inserirli nella società che li ha prodotti e quindi di comprenderli appieno. E questa, ne siamo convinti, è l’unica metodologia di studio che riesce a restituire all’evento teatrale la sua vera sostanza.

 

Il pregevole volume curato da Susan Payne e Valeria Pellis ospita gli interventi dei massimi studiosi del teatro italiano e inglese del Cinquecento e del Seicento. Si aprono così nuove prospettive di indagine per un argomento che corre sempre il rischio di uno sterile ed inutile 'già detto'. Come evidenzia Payne nell’Introduzione, a Shakespeare è mantenuto il ruolo principale che giustamente gli spetta; ma gli studi presentati inseriscono il drammaturgo nella cultura da cui provenne, tengono in considerazione la drammaturgia e la teatralità che lo ispirarono e lo guidarono nonché la spettacolarità a lui coeva. Si riesce in tal modo a ricomporre «il quadro di una stagione irripetibile della storia letteraria e artistica occidentale». A questo proposito nella Prefazione Stephen Orgel traccia le linee fondamentali per una ricontestualizzazione culturale di quel periodo, uno tra i più complessi della storia del teatro d’occidente. Lo studioso mette in luce che, nonostante la grande messe letteraria prodotta dall’epoca elisabettiana, in realtà la performatività fu il carattere fondante di quella cultura spettacolare, proprio come lo era anche in Italia: «di per sé gli attori sono liberi, e nel Rinascimento erano proprio loro i committenti del drammaturgo alle loro dipendenze».

 

Il volume si struttura in tre sezioni. La prima evidenzia i rapporti intercorrenti tra il teatro italiano e quello inglese, nella consapevolezza che l’uno sia stato origine dell’altro. La seconda è dedicata interamente alla drammaturgia e al teatro di Shakespeare. La terza, infine, presenta una serie di saggi su opere di suoi contemporanei, per mettere in luce l’humus culturale assai fecondo in cui Shakespeare lavorava. Il merito maggiore di questo volume, infatti, è quello di offrire una lettura comparata dei fenomeni teatrali e culturali riuscendo a integrare gli aspetti drammaturgici e performativi senza mai perdere di vista l’assunto di partenza esposto da Stephen Orgel nella prefazione, né quello evidenziato da Louise George Clubb, il cui saggio non a caso è posto in apertura di volume.

 

Così si mettono in evidenza le transazioni letterarie, poiché è ovvio che la carta stampata è sempre stata il veicolo privilegiato per la diffusione della cultura. Fernando Cioni mostra come i prologhi del teatro italiano del Rinascimento di ascendenza plautina e terenziana divennero il modello per i prologhi e gli epiloghi del teatro inglese. Enrico Scaravelli e Michele Marrapodi esaminano l’influsso della tragicommedia italiana su quella inglese. Si passa poi all’evidenziazione del rapporto tra pictura e poiesis: Keir Elam attraverso l’analisi del quadro sulla scena shakespeariana e Claudia Corti prendendo in considerazione le figure dell’ecfrasis e dell’ipotiposi presenti in A Winter’s Tale. Alessandro Serpieri tratta la questione sempre aperta del primo in-quarto dell’Hamlet del 1603 (scoperto nel 1823), muovendo dall’edizione del testo redatta nel 2006 da Ann Thompson e Neil Taylor e includendo nell’analisi anche il secondo in-quarto del 1604-1605 e l’in-folio del 1623.

 

Si evidenziano, però, anche le importanti eredità peninsulari lasciate dalla presenza dei nostri artisti oltremanica. Siro Ferrone (vedi il saggio qui pubblicato) ripercorre il percorso che portò la compagnia di Scaramuccia (Tiberio Fiorilli) ad esibirsi in Inghilterra. In questa era presente anche l’arlecchino Biancolelli. Paolo Ramacciotti si concentra sulle questioni musicali ed esamina le radici storico-culturali del madrigale italiano e la sua ricezione in Inghilterra ricorrendo all’esempio del The Triumphes of Oriana di Thomas Morley.

 

Infine, ma non certo per ordine di importanza, si dà conto anche dei contesti storico-culturali dell’epoca shakespeariana. Stephen Orgel illustra il cambiamento del senso della spettacolarità di corte registrato nel passaggio dall’epoca Tudor a quella Stuart e concentra la sua attenzione sulle questioni politiche e scenografiche relative al masque, esemplificando attraverso riferimenti al Masque of Queenes. Giovanna Silvani e Valerio Viviani ricontestualizzano alcune questioni legate al teatro di Christopher Marlowe. Susan Payne analizza la tragicommedia Love’s Victory (1614-1619) di Lady Mary Wroth, fornendo un contributo importante alla conoscenza di questa autrice poco nota in Italia. Il volume è chiuso da una Postfazione di Loretta Innocenti che riannoda il bandolo della matassa attorno alla fortuna shakespeariana nell’epoca della Restaurazione.

 

I saggi segnalati sono soltanto alcuni tra quelli che compongono il volume nella sua interezza. Li abbiamo scelti quali esemplificazioni per il nostro discorso, al fine di sottolineare l’ampiezza dell’orizzonte investigativo racchiuso in questa miscellanea. Il teatro inglese tra Cinquecento e Seicento concorre a proseguire il cammino iniziato molti anni fa dall’Università di Firenze verso nuove linee di indagine libere dagli schematismi di una accademia di vedute troppo rigide e ristrette e verso la armonizzazione di approcci diversi al medesimo oggetto d’indagine. Solo in questo modo si può fornire la giusta interpretazione del Teatro: un organismo che sfugge a qualunque intento tassonomico, e che vive primariamente del suo rapporto con le tavole del palco e della vita.

 

 

di Diego Passera


La copertina

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