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Introduction et choix des textes par Joëlle Garcia

Introduction et choix des textes par Joëlle Garcia

Arles, Actes Sud-Papiers, 2011, pp. 96, euro 14,00
ISBN 978-2-330-00179-7

Nel 1927, nasceva a Parigi il Cartel des Quatres, che riuniva quattro teatri di indirizzo artistico affine: Studio des Champs-Elysées, Théâtre de l’Atelier, Comédie des Champs-Elysées Théâtre des Mathurins. I rispettivi direttori s’impegnavano in unità di spirito e solidarietà concreta, a collaborare nella scelta dei testi, dei modi di comunicazione e dell’organizzazione di manifestazioni comuni, in vista d’una maggiore libertà creativa. Charles Dullin (1885-1949) era il responsabile del Théâtre del l’Atelier, studio-laboratorio fondato nel 1921 e residente dal 1922 al Théâtre de Montmartre ribattezzato.   

Di questo attore, regista e pedagogo, si contano pochi e non sistematici scritti; la carenza di una cospicua riflessione teorica si deve soprattutto alla priorità affidata, nella sua opera, all’aspetto creativo e artigianale di metteur en scène. Tuttavia, all’esperienza e alla memoria dei suoi spettacoli (poco numerosi, in rapporto alla carriera, spesa del resto nell’attività pedagogica) è conveniente riaccostare il suo pensiero nei documenti disponibili. Essi sono raccolti parzialmente in Souvenir et notes de travail d’un acteur (Paris, 1946) e in Ce sont les dieux qu’il nous faut (Paris, 1969) e in Italia sono sintetizzati in La ricerca degli dei (a cura di Daniele Seragnoli, Firenze, 1986). Il presente volume, nella Collana «Mettre en scène» diretta da Béatrice Picon-Vallin, ha il pregio di offrire diversi inediti tratti dell’Archivio Dullin presso la BnF e dalla Rivista «Correspondance», edita dall’Atelier negli anni Millenovecentoventi. L’Introduzione di Joëlle Garcia traccia una biografia critica dell’artista, preziosa nell’inquadrare il materiale pubblicato. In apertura, la vocazione decisa dell’uomo di teatro dalle umili origini, rivela ideali alti e forti istanze etiche: «Charles Dullin restera marqué toute sa vie par ses origines terriennes et ses débuts dans les théâtres de quartier parisiens, où l’on joue le mélodrame» (p. 6). Gli incontri e gli scambi segnalati all’esordio, comprendono André Antoine, Jacques Rouché; indi Stanislavskij, Mejerchol’d, Craig e Reinhardt. Jacques Copeau è centrale nella sua formazione in quanto con lui collabora all’apertura del Vieux-Colombier. Da Firmin Gémier trae alimento alla sua sensibilità per l’aspetto popolare della sua arte, poiché «le théâtre populaire doit être à l’avant-garde du mouvement dramatique car le public populaire suivra toujours une œuvre forte» (p. 14). Gli elementi creativi e gli obiettivi estetici sono posti in relazione con la cura organizzativa; con la preoccupazione del passeur di idee e di esperienze. Scuola e produzione si integrano programmaticamente all’Atelier, da dove transitano diverse leve di artisti, fra i quali Barrault, Decroux, Artaud, Vilar, Serreau, Blin, Marais, Vadim, Marceau.     

Fra i Testi più importanti, appaiono qui il Manifeste de l’Atelier (1921), posto sotto l’egida di Leonardo da Vinci: «L’Atelier n’est pas une entreprise théâtrale, mais un laboratoire d’essais dramatiques. Nous avons choisi ce titre parce qu’il nous semble répondre à l’idée que nous nous faisons d’une organisation corporative idéale [...] où l’artiste connaîtrait à fond l’instrument dont il doit se servir» (p. 21), a cui seguono diverse varianti all’idea di troupe e le ragioni fondamentali della coesistenza di una scuola in seno all’organismo produttivo: Fonder une école d’hommes-théâtre prelude a Improviser e Travailler le masque (1922). «L’instrument de l’acteur, c’est lui-même: son propre corps, sa physionomie, sa voix, ses mouvements» (p. 25), è l’evidenza indicata all’apprendista per il quale il maestro prospetta l’addestramento a una doppia ginnastica, e fisica e culturale. Negli stessi anni iniziali, la troupe costituita in «coopérative» mostra una lungimiranza notevole.    

S’incontrano altre sorprese sul metodo d’approccio all’opera drammatica; sul rapporto col testo e con l’autore (e col musicista, come nella collaborazione con Darius Milhaud), mentre si delinea, nelle fasi dello «smontaggio», dell’analisi, del rimontaggio (improvvisazione compresa) una «regia critica» in nuce, simile alla realtà affermatasi anche da noi decenni dopo. La dimensione sociale dell’arte scenica è individuata assieme alla portata del coinvolgimento del pubblico e al contributo originato da quei rapporti sapientemente coltivati (Le public, 1927). Pure apprezzando i ritrovati della scenotecnica (Le décor, 1929), Dullin privilegia l’immaginazione, tipica della scena elisabettiana. Analogie di gusto e adesioni di principio, si riscontrano nell’artista di fronte alla rappresentazione di La Forêt, di Ostrovskij, con la regia di Mejerchol’d nel 1930 a Parigi. Infine, Réflexions sur la mise en scène (1948) è una più articolata se pur breve metodologia, testimonianza acuta e sincera sull’insieme del proprio lavoro. Corredano il volume, una Cronologia e una Bibliografia selettiva.  


di Gianni Poli


La copertina

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