Nel 1927, nasceva a Parigi il Cartel des Quatres, che riuniva quattro teatri di indirizzo artistico affine: Studio des Champs-Elysées, Théâtre de lAtelier, Comédie des Champs-Elysées Théâtre des Mathurins. I rispettivi direttori simpegnavano in unità di spirito e solidarietà concreta, a collaborare nella scelta dei testi, dei modi di comunicazione e dellorganizzazione di manifestazioni comuni, in vista duna maggiore libertà creativa. Charles Dullin (1885-1949) era il responsabile del Théâtre del lAtelier, studio-laboratorio fondato nel 1921 e residente dal 1922 al Théâtre de Montmartre ribattezzato.
Di questo attore, regista e pedagogo, si contano pochi e non sistematici scritti; la carenza di una cospicua riflessione teorica si deve soprattutto alla priorità affidata, nella sua opera, allaspetto creativo e artigianale di metteur en scène. Tuttavia, allesperienza e alla memoria dei suoi spettacoli (poco numerosi, in rapporto alla carriera, spesa del resto nellattività pedagogica) è conveniente riaccostare il suo pensiero nei documenti disponibili. Essi sono raccolti parzialmente in Souvenir et notes de travail dun acteur (Paris, 1946) e in Ce sont les dieux quil nous faut (Paris, 1969) e in Italia sono sintetizzati in La ricerca degli dei (a cura di Daniele Seragnoli, Firenze, 1986). Il presente volume, nella Collana «Mettre en scène» diretta da Béatrice Picon-Vallin, ha il pregio di offrire diversi inediti tratti dellArchivio Dullin presso la BnF e dalla Rivista «Correspondance», edita dallAtelier negli anni Millenovecentoventi. LIntroduzione di Joëlle Garcia traccia una biografia critica dellartista, preziosa nellinquadrare il materiale pubblicato. In apertura, la vocazione decisa delluomo di teatro dalle umili origini, rivela ideali alti e forti istanze etiche: «Charles Dullin restera marqué toute sa vie par ses origines terriennes et ses débuts dans les théâtres de quartier parisiens, où lon joue le mélodrame» (p. 6). Gli incontri e gli scambi segnalati allesordio, comprendono André Antoine, Jacques Rouché; indi Stanislavskij, Mejerchold, Craig e Reinhardt. Jacques Copeau è centrale nella sua formazione in quanto con lui collabora allapertura del Vieux-Colombier. Da Firmin Gémier trae alimento alla sua sensibilità per laspetto popolare della sua arte, poiché «le théâtre populaire doit être à lavant-garde du mouvement dramatique car le public populaire suivra toujours une œuvre forte» (p. 14). Gli elementi creativi e gli obiettivi estetici sono posti in relazione con la cura organizzativa; con la preoccupazione del passeur di idee e di esperienze. Scuola e produzione si integrano programmaticamente allAtelier, da dove transitano diverse leve di artisti, fra i quali Barrault, Decroux, Artaud, Vilar, Serreau, Blin, Marais, Vadim, Marceau.
Fra i Testi più importanti, appaiono qui il Manifeste de lAtelier (1921), posto sotto legida di Leonardo da Vinci: «LAtelier nest pas une entreprise théâtrale, mais un laboratoire dessais dramatiques. Nous avons choisi ce titre parce quil nous semble répondre à lidée que nous nous faisons dune organisation corporative idéale [...] où lartiste connaîtrait à fond linstrument dont il doit se servir» (p. 21), a cui seguono diverse varianti allidea di troupe e le ragioni fondamentali della coesistenza di una scuola in seno allorganismo produttivo: Fonder une école dhommes-théâtre prelude a Improviser e Travailler le masque (1922). «Linstrument de lacteur, cest lui-même: son propre corps, sa physionomie, sa voix, ses mouvements» (p. 25), è levidenza indicata allapprendista per il quale il maestro prospetta laddestramento a una doppia ginnastica, e fisica e culturale. Negli stessi anni iniziali, la troupe costituita in «coopérative» mostra una lungimiranza notevole.
Sincontrano altre sorprese sul metodo dapproccio allopera drammatica; sul rapporto col testo e con lautore (e col musicista, come nella collaborazione con Darius Milhaud), mentre si delinea, nelle fasi dello «smontaggio», dellanalisi, del rimontaggio (improvvisazione compresa) una «regia critica» in nuce, simile alla realtà affermatasi anche da noi decenni dopo. La dimensione sociale dellarte scenica è individuata assieme alla portata del coinvolgimento del pubblico e al contributo originato da quei rapporti sapientemente coltivati (Le public, 1927). Pure apprezzando i ritrovati della scenotecnica (Le décor, 1929), Dullin privilegia limmaginazione, tipica della scena elisabettiana. Analogie di gusto e adesioni di principio, si riscontrano nellartista di fronte alla rappresentazione di La Forêt, di Ostrovskij, con la regia di Mejerchold nel 1930 a Parigi. Infine, Réflexions sur la mise en scène (1948) è una più articolata se pur breve metodologia, testimonianza acuta e sincera sullinsieme del proprio lavoro. Corredano il volume, una Cronologia e una Bibliografia selettiva.
di Gianni Poli
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