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Vittorio Franceschi

Il volo dei giorni

Prefazione di Gian Mario Anselmi

Rimini, Raffaelli editore, 2011, euro 12,00
ISBN 978-88-96807-46-0

 

Le poesie di Vittorio Franceschi, attore e drammaturgo

 

Il volo dei giorni è un libro leggero di novantaquattro pagine, e contiene le poesie (di vario metro e vario ritmo) scritte da un attore, Vittorio Franceschi, fra i più creativi interpreti del nostro teatro, già autore di alcune incisive commedie che meritano di essere ricordate. Tra quelle pubblicate in volume: Scacco pazzo (edito nel 1998 da Marsilio), Il  sorriso di Daphne tra regine e naufragi, Il sorriso di Daphne, La regina dei cappelli, I naufragi di Maria (edite nel 2007 in un volume della casa editrice Ubulibri, già da noi recensito). Non è nuova neanche la sua vena poetica dato che lo stesso editore che oggi lo propone aveva pubblicato nel 2004 un bel libretto intitolato Stramba Bologna.

 

La malinconia percorre questa raccolta, anche quando è increspata da un sorriso. Nel fondo dei versi compaiono spesso, quasi sempre, come attraverso un vetro, le immagini e il ricordo di  Alessandra Galante Garrone, maestra di teatro e compagna di vita di Franceschi. E i versi sono leggeri, parole piane, non rare, non ermetiche, ma disposte secondo un respiro che è calibrato dalla sensibilità di chi sa usare la voce, il respiro, i ritmi, le pause. Quasi una prosa in forma di canto sommesso: «La nostra vita effimera\ è un rivo di nostalgia\ coltivata in silenzio\ un fiumicello che scorre\ fra i sassi del cuore\\ in un barbaglio di calore\ subito spento […]». Molte le poesie toccate da ricordi condivisi, appena velati da parole sempre leggère, di una vita fatta di teatro, sogni recitati e umilmente rammentati e ricomposti. E – come sa chi conosce il lavoro teatrale di Franceschi – il ricordo è l’occasione per immaginare e inventare una vita altra, quasi una redenzione di quella presente, il risarcimento di questa. Alcuni versi s’impennano in torsioni fantastiche, prendono la strada dell’ermetismo, ma questo dipende dal fatto che in realtà i componimenti sono spesso un dialogo: con chi non c’è, con una parte di sé, con la morte che c’è sempre, e ci aspetta immobile, mentre l’attore della vita avanza. E in questo dialogo sovente si accampa – amata e irrinunciabile quanto la compagna perduta – l’illusione di chi recita ed “è recitato”, il sogno fragile che Franceschi coltiva come antidoto e controdolore: «Tentenna Arlecchino che mangia\ cotenna e fagioli si sbraccia\ la strega che tutti minaccia il lupo\ di Gubbio nessuno consola\ che piange pentito che ieri\ a morte ha morso\ lo Santo Francesco alla gola». Si snodano qui, come in altri più lunghi componimenti, rime interne, allitterazioni, consonanze quasi nascoste all’interno del verso con il delicato pudore che contraddistingue lo stile teatrale di Franceschi anche quando recita magistralmente (o scrive) l’assurdo o il grottesco.

 


 

In alcuni componimenti affiora la tentazione simbolista, ma questa si scioglie poi in un dettato che è tanto cordiale quanto umile, felicemente quotidiano, perché Franceschi di un fondamento – mi pare – non possa fare a meno, il colloquio con gli altri, da pari a pari, lui con gli altri, gli altri in platea, nella strada, nella vita e nella morte. E li cerca gli altri, per renderli partecipi della propria illusione:

 

Non si può chiedere di più

alla vita se mille vite

battono alla porta per entrare

e tu felice le accompagni

perché guardino da quel buchetto

del sipario la sala il bisbiglio del mondo

che chiede pace per un’ora dammi il bene

dice, dammi le pene che sian pure

verità feroce fai che la foce

torni ad esser sorgente dammi

le cose buone del tuo cuore

che son cresciute

delicate sorelle

fra tende di velluto

consunte specchiere sbrecciate, dammi

la voce che vibra così chiara

e svela al mondo i miei dolori

dammi luce

che noi la nostra

l’abbiam lasciata fuori.

           

Tutta la raccolta è un viaggio dalla vita cantata alla vita rammentata, un’andata e un ritorno con il pensiero della morte. Ma nel finale, la sorpresa: scrivendo di poesia e di «cos’è moderno», Franceschi imputa a se stesso «versi passatelli. Forse è vero» – risponde – «ma poco me ne importa se son belli». Seguono infatti, sotto il titolo Versi per lieder, ventuno composizioni brevi, leggère-leggère, cantabili, cordiali, ironiche, che ricordano antiche filastrocche o moderni aforismi. Si sente che nascono dalla voce più che dalla mente e allora viene voglia di sentirla quella voce, la voce dell’attore, viva, sul palcoscenico, come quella di un Petrolini post-moderno e malinconico.

 

di Siro Ferrone


La copertina

cast indice del volume


 

 
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