Quale migliore occasione per celebrare uno degli autori prediletti dai
redattori della rivista, ovvero David Cronenberg, se non la
presentazione di A Dangerous Method
allultima Mostra dArte Cinematografica di Venezia e la sua uscita nelle sale
italiane? In questo nuovo numero, ancor più denso di contenuti del solito, «Duellanti»
dedica quasi esclusivamente la sezione radiografie allultima fatica del
cineasta canadese, incentrata su figure cardine del secolo scorso, come Sigmund
Freud e Gustav Jung. Carlo Chatrian, Franco Marineo, Ivan Moliterni
e Marco Toscano analizzano A Dangerous
Method cercando di rintracciare i punti di contatto e le divergenze
estetiche e teoriche con le altre pellicole della sua filmografia. Chatrian e
Marineo si trovano daccordo nellaffermare come lanalisi proposta da
Cronenberg si sviluppi dentro la mente dei personaggi. Lo sguardo del regista
non si sofferma così nella realtà, ma nel corpo degli individui, luogo in cui
si compie la mutazione che li condanna ad essere loro malgrado dei
traghettatori della Storia. «Per tutta lopera la compostezza visiva e formale
non verrà mai messa in discussione; al contrario, da un punto di vista
narrativo il racconto è centrato sul percorso di una donna che da malata non
solo guarisce, ma si fa portatrice di un nuovo verbo. Il punto interrogativo viene
posto su ciò che non ha spiegazione, su ciò che va al di là di ogni tentativo
di razionalizzare». Per Marineo, A Dangerous
Method non ricorre mai a simboli da decodificare, non edifica alcun “teatro
della rappresentazione” per rimandare a qualcosa che sia fuori dalle linee di
forza che tengono insieme i tre personaggi principali. Non cè nulla da
interpretare, perché tutto affiora sui corpi che riempiono ogni fotogramma. Secondo
il critico il cinema del regista canadese negli ultimi due decenni si è sempre
meno legato a un disturbo visivo, ad unallucinazione virale, per diventare un
meccanismo apparentemente più “ classico”. Tuttavia, Cronenberg risulta fortemente
interessato alla messa in scena del processo di mutazione che pare ancora
essere il perno di ogni suo lavoro. «Non può essere un caso infatti che in una
pellicola incentrata sul potere rappresentativo, simbolico, terapeutico della
parola, egli imbastisca unintricata tela verbale che lentamente conduce tutti
i suoi protagonisti verso un ripensamento della propria funzione, della propria
posizione del proprio stesso credo». Secondo Marco Toscano il grande merito
della pellicola consiste nellabilità con la quale viene visualizzato il
passaggio capitale da un codice fatto di segni che restituiscono graficamente
determinati significati a un linguaggio altrettanto simbolico ma privo di
contenuti semantici inconfutabili, aperto cioè allinterpretazione, in bilico
sul baratro dellinconscio.
Il redattore inoltre propone al lettore uninteressante parallelo tra il
film di Cronenberg e Carnage di Roman
Polanski. Per Toscano si tratta di due pellicole totalmente interne «che
dopo aver fatto saltare la crosta si concentrano sulle motivazioni più
recondite dei personaggi, chiudendoli letteralmente “dentro”». La superficie è
quella delle buone maniere, delle regole, delle convenzioni sociali che
inchiodano lindividuo al proprio ruolo. Si potrebbe affermare che Carnage comincia dove finisce A Dangerous Method, evoluzione di una
storia di nevrosi in cui a contare sono anche le disparità – se non proprio di
classe - di status economico.
Lanalisi del lungometraggio del regista polacco continua con Marco
Chiani, il quale nota come Polanski non lasci mai allontanare i suoi personaggi
al di là dellangusto corridoio che conduce a un ascensore dal quale sono come
risputati fuori. Mentre i confini delle case polanskiane sono di solito incerti
e tendenti alla mutazione, lultimo appartamento immaginato è tutto calamitato
verso un tavolo. Carnage appare incentrato
sulla totale mancanza di vie di scampo a ogni livello, la solidità di un
set-casa di cui ignoriamo solo le stanze da letto – troppo orizzontali e
rilassanti per essere mostrate - si oppone a qualsiasi possibilità di
pervasività dello sguardo in una trappola scenografica dove la progressiva
esplosione della violenza scaturisce anche dal malessere causato
dalloccupazione di quel perimetro di spazio libero attorno a ogni protagonista
capace di assicurarne libertà di movimenti e integrità mentale. Il rapporto di
scambio tra i personaggi è plasmato in base a meccanismi oppositivi e mai
circolari in cui la labilità dellidentificazione/comprensione riguarda tanto le
coppie matrimoniali quanto quelle di sesso, impegnate in una schermaglia da cui
escono piano piano spogliate e distrutte. Due maschi e due femmine non meglio
assortiti di altre celebri coppie che infestano luniverso polanskiano dal
corto Due uomini e un armadio (1958)
in poi naufragano contro ogni certezza, diventando vicendevolmente vittime e
carnefici. Secondo Simone Spoladori, questa pellicola può essere divisa in due
parti. La prima, quella dellapparire, vede come protagonisti quattro
personaggi pirandellianamente “in maschera”. Polanski la sviluppa scegliendo
inquadrature lineari, geometriche, statiche, che restituiscono benissimo lidea
di una costrizione di un fuoco guizzante sotto la cenere. Le maschere cadono e
inizia la parte dellessere, dietro allapparire. Con uno stile che si fa via
via volutamente disordinato, più selvaggio, camera a mano e inquadrature
storte, con uno sguardo ghignate e acido, il regista descrive la deflagrazione
dellistituzione borghese della famiglia: una carneficina morale e
irresistibile, sintomo raggelante di una completa e più ampia perdita di valori
della società. Polanski tiene il ritmo altissimo, maneggia i dialoghi con una
maestria impressionante, gestendo i tempi di campi e controcampi come un
ingranaggio perfetto; soprattutto, dirige gli attori in modo sublime.
Per la sezione “incontriepercorsi”, Marzia Gandolfi intervista Nicolas
Winding Refn a proposito di Drive.
Il regista danese afferma di essersi ispirato allopera di Jean-Pierre
Melville, autore che «ha saputo lavorare sulla mitologia americana con una
sensibilità tutta europea». Secondo Refn limpiego della violenza nel suo film
tradisce unorigine italiana: «i personaggi di Sergio Leone e di Dario
Argento in particolare praticano la violenza esprimendo al contempo una
liricità che ho cercato di produrre attraverso il mio protagonista. Da Argento
ho rubato parecchio; come luso del colore e della musica che per me è
importantissima. Sono le sue armonie che guidano il mio processo di creazione:
desidero che tra musica e immagine ci sia sempre una corrispondenza perfetta. Anche
se vivo a New York non posso dimenticare le mie origini scandinave; a noi non
piace mostrare le nostre emozioni e questa repressione sviluppa come
conseguenza un atteggiamento passivo-aggressivo. Lintervistatrice non si
lascia scappare loccasione per alimentare la polemica riguardo lo stile di Lars
von Trier, ma Refn glissa con maestria.
Lanalisi del film si sviluppa nelle pagine successive grazie
allintervento di Marco Toscano. Roy Menarini pone invece la sua attenzione su Contagion di Steven Soderbergh.
Per il critico, il regista riesce a superare i numerosi e seccanti problemi di
scrittura grazie a una ipotesi di «cinema di flagranza teorica sorprendente».
Il tema del virus, che rischiava di essere ormai bollito da pellicole sempre
più inette e anonime, viene rilanciato con forza puntando tutto sulla metafora
del contagio economico. «Il virus viaggia rapidissimo insieme alle persone e
può annidarsi negli aeroporti e sui veicoli con nocività assai maggiore dei
kamikaze dell 11 settembre». Soderbergh, che non vuole inscenare la consueta
apocalisse urbana e spettacolare, flette sulla tecnologia il problema della
rappresentazione. Con Contagion siamo
dentro un cinema ormai tecnologizzato in ciascuna sua particella: il film è
girato in digitale, proiettato in digitale nei multiplex, mostra un mondo
digitale, musicato digitalmente, ma ha a che fare con tosse, sputi, vomito,
sudore, influenza e morte. La tecnologia modifica i nostri comportamenti, la
società, la cultura e anche la natura, oltre ovviamente a cambiare il cinema.
La crisi per Sodergbergh, qualunque essa sia, appare irrappresentabile. Il
virus non ha una forma e le telecamere, anche se ad alata definizione, non riescono a
catturarlo.
Anche se la 68a Mostra dArte
Cinematografica riesce a conquistare un po del suo spazio grazie soprattutto
allanalisi di Moliterni su People
Mountain People Sea di Cai Shangjun, le pagine più interessanti di
questo numero sono da rintracciare nel ricordo di Sergio Bonelli
proposto da Gianni Canova. Il direttore celebra una figura chiave del fumetto
italiano, ideatore di Zagor e Mister No, sceneggiatore di Tex, editore di Dylan Dog e Nathan Never.
Infine, resta da segnalare la serie televisiva intitolata Mildred Pierce, presentata in anteprima europea al Lido, diretta
dal discutibile talento di Todd Haynes e interpretata da Kate Winslet.
Il soggetto è tratto dallomonimo romanzo di James M. Cain, già portato
sullo schermo nel 1945 da Micheal Curtiz con uninarrivabile Joan
Crawford.
di Francesca Valeriani
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