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«Duellanti» anno IX, n. 73, ottobre - novembre 2011
Mensile di cinema e (contagi)

«Duellanti» anno IX, n. 73, ottobre - novembre 2011, € 6.00, pp. 120
ISSN 1724-3580

Quale migliore occasione per celebrare uno degli autori prediletti dai redattori della rivista, ovvero David Cronenberg, se non la presentazione di A Dangerous Method all’ultima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e la sua uscita nelle sale italiane? In questo nuovo numero, ancor più denso di contenuti del solito, «Duellanti» dedica quasi esclusivamente la sezione radiografie all’ultima fatica del cineasta canadese, incentrata su figure cardine del secolo scorso, come Sigmund Freud e Gustav Jung. Carlo Chatrian, Franco Marineo, Ivan Moliterni e Marco Toscano analizzano A Dangerous Method cercando di rintracciare i punti di contatto e le divergenze estetiche e teoriche con le altre pellicole della sua filmografia. Chatrian e Marineo si trovano d’accordo nell’affermare come l’analisi proposta da Cronenberg si sviluppi dentro la mente dei personaggi. Lo sguardo del regista non si sofferma così nella realtà, ma nel corpo degli individui, luogo in cui si compie la mutazione che li condanna ad essere loro malgrado dei traghettatori della Storia. «Per tutta l’opera la compostezza visiva e formale non verrà mai messa in discussione; al contrario, da un punto di vista narrativo il racconto è centrato sul percorso di una donna che da malata non solo guarisce, ma si fa portatrice di un nuovo verbo. Il punto interrogativo viene posto su ciò che non ha spiegazione, su ciò che va al di là di ogni tentativo di razionalizzare». Per Marineo, A Dangerous Method non ricorre mai a simboli da decodificare, non edifica alcun “teatro della rappresentazione” per rimandare a qualcosa che sia fuori dalle linee di forza che tengono insieme i tre personaggi principali. Non c’è nulla da interpretare, perché tutto affiora sui corpi che riempiono ogni fotogramma. Secondo il critico il cinema del regista canadese negli ultimi due decenni si è sempre meno legato a un disturbo visivo, ad un’allucinazione virale, per diventare un meccanismo apparentemente più “ classico”. Tuttavia, Cronenberg risulta fortemente interessato alla messa in scena del processo di mutazione che pare ancora essere il perno di ogni suo lavoro. «Non può essere un caso infatti che in una pellicola incentrata sul potere rappresentativo, simbolico, terapeutico della parola, egli imbastisca un’intricata tela verbale che lentamente conduce tutti i suoi protagonisti verso un ripensamento della propria funzione, della propria posizione del proprio stesso credo». Secondo Marco Toscano il grande merito della pellicola consiste nell’abilità con la quale viene visualizzato il passaggio capitale da un codice fatto di segni che restituiscono graficamente determinati significati a un linguaggio altrettanto simbolico ma privo di contenuti semantici inconfutabili, aperto cioè all’interpretazione, in bilico sul baratro dell’inconscio.

Il redattore inoltre propone al lettore un’interessante parallelo tra il film di Cronenberg e Carnage di Roman Polanski. Per Toscano si tratta di due pellicole totalmente interne «che dopo aver fatto saltare la crosta si concentrano sulle motivazioni più recondite dei personaggi, chiudendoli letteralmente “dentro”». La superficie è quella delle buone maniere, delle regole, delle convenzioni sociali che inchiodano l’individuo al proprio ruolo. Si potrebbe affermare che Carnage comincia dove finisce A Dangerous Method, evoluzione di una storia di nevrosi in cui a contare sono anche le disparità – se non proprio di classe - di status economico.

L’analisi del lungometraggio del regista polacco continua con Marco Chiani, il quale nota come Polanski non lasci mai allontanare i suoi personaggi al di là dell’angusto corridoio che conduce a un ascensore dal quale sono come risputati fuori. Mentre i confini delle case polanskiane sono di solito incerti e tendenti alla mutazione, l’ultimo appartamento immaginato è tutto calamitato verso un tavolo. Carnage appare incentrato sulla totale mancanza di vie di scampo a ogni livello, la solidità di un set-casa di cui ignoriamo solo le stanze da letto – troppo orizzontali e rilassanti per essere mostrate - si oppone a qualsiasi possibilità di pervasività dello sguardo in una trappola scenografica dove la progressiva esplosione della violenza scaturisce anche dal malessere causato dall’occupazione di quel perimetro di spazio libero attorno a ogni protagonista capace di assicurarne libertà di movimenti e integrità mentale. Il rapporto di scambio tra i personaggi è plasmato in base a meccanismi oppositivi e mai circolari in cui la labilità dell’identificazione/comprensione riguarda tanto le coppie matrimoniali quanto quelle di sesso, impegnate in una schermaglia da cui escono piano piano spogliate e distrutte. Due maschi e due femmine non meglio assortiti di altre celebri coppie che infestano l’universo polanskiano dal corto Due uomini e un armadio (1958) in poi naufragano contro ogni certezza, diventando vicendevolmente vittime e carnefici. Secondo Simone Spoladori, questa pellicola può essere divisa in due parti. La prima, quella dell’apparire, vede come protagonisti quattro personaggi pirandellianamente “in maschera”. Polanski la sviluppa scegliendo inquadrature lineari, geometriche, statiche, che restituiscono benissimo l’idea di una costrizione di un fuoco guizzante sotto la cenere. Le maschere cadono e inizia la parte dell’essere, dietro all’apparire. Con uno stile che si fa via via volutamente disordinato, più selvaggio, camera a mano e inquadrature storte, con uno sguardo ghignate e acido, il regista descrive la deflagrazione dell’istituzione borghese della famiglia: una carneficina morale e irresistibile, sintomo raggelante di una completa e più ampia perdita di valori della società. Polanski tiene il ritmo altissimo, maneggia i dialoghi con una maestria impressionante, gestendo i tempi di campi e controcampi come un ingranaggio perfetto; soprattutto, dirige gli attori in modo sublime.

Per la sezione “incontriepercorsi”, Marzia Gandolfi intervista Nicolas Winding Refn a proposito di Drive. Il regista danese afferma di essersi ispirato all’opera di Jean-Pierre Melville, autore che «ha saputo lavorare sulla mitologia americana con una sensibilità tutta europea». Secondo Refn l’impiego della violenza nel suo film tradisce un’origine italiana: «i personaggi di Sergio Leone e di Dario Argento in particolare praticano la violenza esprimendo al contempo una liricità che ho cercato di produrre attraverso il mio protagonista. Da Argento ho rubato parecchio; come l’uso del colore e della musica che per me è importantissima. Sono le sue armonie che guidano il mio processo di creazione: desidero che tra musica e immagine ci sia sempre una corrispondenza perfetta. Anche se vivo a New York non posso dimenticare le mie origini scandinave; a noi non piace mostrare le nostre emozioni e questa repressione sviluppa come conseguenza un atteggiamento passivo-aggressivo. L’intervistatrice non si lascia scappare l’occasione per alimentare la polemica riguardo lo stile di Lars von Trier, ma Refn glissa con maestria.

L’analisi del film si sviluppa nelle pagine successive grazie all’intervento di Marco Toscano. Roy Menarini pone invece la sua attenzione su Contagion di Steven Soderbergh. Per il critico, il regista riesce a superare i numerosi e seccanti problemi di scrittura grazie a una ipotesi di «cinema di flagranza teorica sorprendente». Il tema del virus, che rischiava di essere ormai bollito da pellicole sempre più inette e anonime, viene rilanciato con forza puntando tutto sulla metafora del contagio economico. «Il virus viaggia rapidissimo insieme alle persone e può annidarsi negli aeroporti e sui veicoli con nocività assai maggiore dei kamikaze dell’ 11 settembre». Soderbergh, che non vuole inscenare la consueta apocalisse urbana e spettacolare, flette sulla tecnologia il problema della rappresentazione. Con Contagion siamo dentro un cinema ormai tecnologizzato in ciascuna sua particella: il film è girato in digitale, proiettato in digitale nei multiplex, mostra un mondo digitale, musicato digitalmente, ma ha a che fare con tosse, sputi, vomito, sudore, influenza e morte. La tecnologia modifica i nostri comportamenti, la società, la cultura e anche la natura, oltre ovviamente a cambiare il cinema. La crisi per Sodergbergh, qualunque essa sia, appare irrappresentabile. Il virus non ha una forma e le telecamere, anche se  ad alata definizione, non riescono a catturarlo.

Anche se la 68a Mostra d’Arte Cinematografica riesce a conquistare un po’ del suo spazio grazie soprattutto all’analisi di Moliterni su People Mountain People Sea di Cai Shangjun, le pagine più interessanti di questo numero sono da rintracciare nel ricordo di Sergio Bonelli proposto da Gianni Canova. Il direttore celebra una figura chiave del fumetto italiano, ideatore di Zagor e Mister No, sceneggiatore di Tex, editore di Dylan Dog e Nathan Never. Infine, resta da segnalare la serie televisiva intitolata Mildred Pierce, presentata in anteprima europea al Lido, diretta dal discutibile talento di Todd Haynes e interpretata da Kate Winslet. Il soggetto è tratto dall’omonimo romanzo di James M. Cain, già portato sullo schermo nel 1945 da Micheal Curtiz con un’inarrivabile Joan Crawford.



di Francesca Valeriani


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