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Duellanti, a. IX, n. 69, Aprile 2011


Duellanti, a. IX, n. 69, Aprile 2011, € 6.00, pp. 120,
ISSN 1724-3580

Lo scrittore Gian Luca Favetto apre il nuovo numero di «Duellanti» con un articolo commuovente e appassionato sulla tragedia che lo scorso marzo ha colpito il Giappone. Il terremoto, lo tzunami e il pericolo del nucleare conquistano l’attenzione della rivista, occupando l’intera sezione “radiografie”. Ricordando la sua prima esperienza di contatto con una civiltà «straniera, ma non estranea», Favetto riflette sull’apparente distanza che divide Oriente e Occidente, notando come si trasformino gradualmente in sentimento d’identità e di appartenenza.

Aya Shigefuji, redattrice della rivista, in visita a Tokyo al momento del terremoto, racconta la sua tragica esperienza concentrandosi in particolare sulla resistenza del popolo giapponese al sistema di «(dis)informazione» dei media locali. La giornalista di origine nipponica dà vita a un vero e proprio diario scandito dal racconto della sua personalissima avventura (senza rinunciare a confessare le sue paure e le sue ansie) che alterna a puri fatti di cronaca: televisioni e giornali tacciono sulla nube tossica. Le vere risposte a drammatici interrogativi si riescono a ottenere solo dall’estero; la rete è l’unico mezzo per rimanere informati in tempo reale: «stare lì, connessa con quel mondo virtuale, pieno di persone che si scambiano commenti, mi fa sentire meno sola». Lo scarseggiare di cibo, la paura della contaminazione nucleare e il senso di spaesamento si uniscono all’autocensura del governo nei confronti delle esplosioni nelle centrali sparse in tutto il Paese. Frustrata dal senso di colpa, la Shigefuji decide di trasferirsi in Italia, commentando l’interesse di televisioni e carta stampata a distanza di pochi giorni: «una ricerca affannosa e quasi estenuante per avere aggiornamenti su quello che fino a ieri era al primo posto dell’agenda mediatica. È come una giostra che ruotando vorticosamente su se stessa cancella e sostituisce, si accanisce e poi dimentica».

In totale contraddizione con l’opinione espressa dallo scrittore Gian Luca Favetto, l’artista Valerio Berruti pone l’accento sull’enorme divario esistente tra il popolo italiano e quello nipponico, senza tuttavia fornire opinioni originali, rischiando la banalità e il luogo comune.

Sempre nella stessa sezione, Riccardo Mazzon propone un’inusuale analisi sulla ripetizione di certe immagini nel corso della Storia. Concentrando il nostro sguardo sul Paese del Sollevante possiamo verificare un dato estremamente rilevante: i fumetti, i film e i cartoni animati prodotti in Giappone denotano come il «luogo dell’immaginario» di questo popolo sia l’esplosione di luce, la mutazione genetica. Akira, i Pokémon, Dragon Ball rappresentano solo gli esempi più famosi. In realtà «decine di altri manga (e non) attingono all’immaginario radioattivo». A concludere lo spazio dedicato alla catastrofe giapponese, Franco Marineo interviene a proposito della sovrapposizione tra realtà e finzione che, a partire dall’11 settembre 2001, si verifica ogni qual volta i nostri occhi si trovano di fronte a un immaginario apocalittico. Usando le parole di Jean Baudrillard: «è come se la realtà fosse invidiosa della finzione, che il reale fosse geloso dell’immagine... È una specie di duello tra loro, a chi sarà il più inimmaginabile». Marineo sviluppa questo pensiero aggiungendo: «se si manifestano eventi la cui visualizzazione supera il limite di ciò che credevamo racchiuso nell’orizzonte del pensabile, ci sorprendiamo a riflettere che siamo spettatori di “immagini inimmaginabili” e subito, piuttosto curiosamente, proviamo a rintracciare, nel campo mnemonico delle immagini che abbiamo attraversato nel passato, sequenze simili, frammenti visivi gemelli, racconti adiacenti a quelli che travolgono la nostra quotidianità spettatoriale».

Per la sezione “incontriepercorsi”, Marco Chiani intervista Filippo Marcelloni, coautore insieme a Roberto Faenza del lungometraggio Silvio Forever. Il regista spiega le logiche che hanno dato forma alla sua opera, ovvero il montaggio di materiali eterogenei, che hanno lasciato sulla scena un solo uomo: il mattatore Berlusconi. Silvio Forever rappresenta un lavoro spurio, composto da materiale di archivio, filmati televisivi e video caricati su YouTube. A questa composizione hanno lavorato i giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Il redattore sottolinea come Marcelloni rifletta sulle potenzialità del linguaggio. Secondo il regista, «se si facesse l’esame esatto delle parole che usa, non credo risulterebbero essere più di cinquanta. Mentre la sinistra e tutti gli altri partiti cercano l’eloquio e le astrusità, con la conseguenza di non arrivare alla pancia della gente, lui centra il bersaglio con un linguaggio scarno, essenziale. A forza di martellare, proprio come succede con la pubblicità, ciò che dice ti entra in testa. La sua è vera e propria scienza, quella del marketing applicato alle menti». L’analisi del film prosegue con altri due interventi: il primo, firmato da Gianni Canova, tende a considerare Silvio Forever un involontario testo apologetico e devozionale del personaggio Berlusconi. Il secondo, scritto da Riccardo Caccia, non risulta una vera e propria recensione del film, quanto piuttosto una serie di constatazioni sul “berlusconismo”. Il numero di aprile prosegue con l’approfondimento su Il gioiellino di Andrea Malaioli, che dopo gli orrori della porta accanto messi in scena ne La ragazza del lago, passa agli orrori della finanza “creativa”, diabolicamente attuati da un’azienda agroalimentare chiamata Leda, identificabile nella Parmalat di Callisto Tanzi. Luca Barnabé intervista il regista quarantenne, ponendo l’accento sulle analogie e i rimandi al crac della grande impresa italiana. A questo proposito Malaioli afferma: «l’azienda al centro del film rappresenta un caso di simulazione clamoroso. Questi manager occultano la realtà, manipolano, gonfiano e falsificano i conti. Leda appare piena di salute mentre sta collassando e soffocando in problemi sempre più gravi. È una delle caratteristiche dell’ “Italia senza vergogna” contemporanea, la società dell’apparenza e della presunzione, dove sembra non esistere una verità oggettiva». A differenza di Barnabé e Rocco Moccagatta, Marco Toscano si concentra sul personaggio di Ernesto Botta (alias Callisto Tanzi) interpretato da Toni Servillo, ponendo l’accento sul suo ruolo di supremo mistificatore.

Le numerose interviste di questo numero vedono come protagonisti anche Gore Verbinski e Paul Haggis. Il primo risponde alle domande di Marzia Gandolfi a proposito di Rango, western anomalo grazie al quale il regista polacco è approdato nel mondo dell’animazione digitale. Haggis, incontratosi con Federico Gironi, racconta la genesi di The Next Tree Days, un thriller che pone interrogativi morali, riflettendo ancora una volta sul dibattito dei valori americani con lo scopo di metterne a nudo le contraddizioni.

Nella sezione dedicata alla Berlinale, spicca l’intervento di Carlo Chatrian su Nader and Simin, a Separation, con cui quest’anno il regista iraniano Asghar Farhadi si è aggiudicato l’Orso d’oro. Secondo il critico, nell’unità di una drammaturgia di base, ciò che rende unico il discorso di Farhadi è «l’allargamento della prospettiva». Le sue sceneggiature considerano l’uomo come un animale sociale e tendono a mettere in rilievo come la vita in comunità male si adatti al desiderio di verità e comprensione proprio degli individui. Per Chatrian, da questo assunto deriva la questione al centro di tutto il cinema contemporaneo, ovvero la dialettica tra l’essere e l’apparire. «Che si chiami dogma religioso o convenzione sociale, rispetto dell’autorità paterna o orgoglio individuale, tutti i personaggi risultano vittime di una devozione tanto paradossale, quanto tragica. In questa visione la società iraniana non è più il teatro di una singolarità deprecabile, ma la scena in cui si acutizza una malattia diffusa».

Per concludere, restano da segnalare i ricordi di due mitiche e insostituibili personalità del cinema statunitense, scomparse di recente: Fabio Vittorini ripercorre la brillante carriera di Elisabeth Taylor, mentre Federico Pedroni ricorda un maestro della commedia americana, il genio dissacrante Blake Edwards.



di Francesca Valeriani


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