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Duellanti, a. IX, n. 68, Marzo-Aprile 2011


Duellanti, a. IX, n. 68, Marzo-Aprile 2011, € 6.00, pp. 120,
ISSN 1724-3580

Pistola puntata verso il lettore, ghigno di sfida e sguardo minaccioso: Jeff Bridges nelle vesti del famoso sceriffo Rooster Cogburn, ruolo che valse l’Oscar a John Wayne nel ‘lontano’ 1969, conquista la copertina del nuovo numero di «Duellanti», dedicando l’intera sezione “radiografie” a Il grinta di Joel ed Ethan Coen. Se Alberto Pezzotta critica negativamente il film, percependolo come la reiterazione di un meccanismo visto all’opera più volte all’interno dell’universo coeniano, Marco Toscano, attraverso un originale analisi della dicotomia tra luce ed ombra presente nel lungometraggio, manifesta un implicito apprezzamento nei confronti dei due registi americani. Per il redattore «il conflitto tra luce e ombra - già tematizzato nell’incipit - si snoda lungo tutto il film, formalizzandosi in una situazione ricorrente: noi siamo fuori (al freddo, al buio), mentre in lontananza scorgiamo un bagliore; oppure ci troviamo in trappola, immersi in una tenebra che si schiude contro il cielo, nella luce accecante del giorno». L’analisi de Il Grinta prosegue con Ivan Moliterni e Federico Pedroni. Il primo stabilisce un confronto tra l’opera diretta da Henry Hathaway e il remake odierno: secondo Moliterni «in relazione al contrasto tra l’esibizione plateale della morte e la necessità di una rielaborazione intima del lutto, emerge un diverso significato nelle due versioni. In quella originale la giustizia ha un valore esemplare [...] nel remake, al contrario, non c’è separazione tra morte pubblica e privata, ma entrambe mantengono lo stesso livello di ostentazione». Pedroni concentra il suo intervento sulla decostruzione del genere cinematografico adottata ancora una volta dai due registi. Per il giornalista il loro west è lontanissimo dalle terre delle opportunità del cinema classico, violenta ma regolata da nette distinzioni tra Bene e Male. Rielaborando l’onda ribelle del western degli anni Sessanta e Settanta, l’anarchia nichilista di Sam Peckinpah e l’epica anticonformista di Arthur Penn, per Pedroni «i film dei Coen non si limitano alla riproposizione – e alla destrutturazione -  dei singoli generi, piuttosto ne confondono i contorni attraverso un’arte combinatoria lucida e spiazzante». A chiudere l’ampio spazio dedicato a Il Grinta, Marzia Gandolfi mette a confronto l’interpretazione di Jeff Bridges con quella di John Wayne. Le loro performance, distanti per “corpo” (tenace e atletico quello di Wayne, pigro e gravato quello di Bridges), rivelano tracce di emozioni precedenti e di stagioni differenti del cinema americano, mostrando alcuni punti di contatto, quali l’amore per John Huston, la malinconia crepuscolare, lunghi anni di gavetta e lo spirito da “fondisti”. Sempre più eterogenea, la sezione “incontriepercorsi” propone al lettore un itinerario variegato e disomogeneo, esaminando più o meno approfonditamente i film più interessanti della stagione che si è appena conclusa.

Luca Barnabé intervista Darren Aronofsky a propositivo del suo ultimo lavoro, Il cigno nero. Il regista afferma di essersi lasciato influenzare dalle atmosfere dominanti negli horror asiatici contemporanei. Riflettendo sulla filmografia del regista americano, Barnabé individua un legame estetico e narrativo tra The Wrestler (Aronofsky, 2008) e Il cigno nero. Il regista conferma tale connessione, sottolineando come entrambi i protagonisti usino il proprio corpo per spingersi verso l’estremo: Randy “The Ram” Robinson (Mickey Rourke) è mosso da una sorta di sacrificio per il piacere degli occhi dei suoi fan. Nina Sayers (Natalie Portman) ricerca invece febbrilmente la perfezione nella danza classica, portandola a una forma di ossessione paranoica. Dopo l’intervista ad Aronofsky occorre soffermarsi sull’originale apologia de Il cigno nero firmata da Matteo Bittanti. Il critico esprime senza riserve il suo apprezzamento nei confronti del film, definendolo: «un lurido melodramma che deborda nel neo-kitsch, sublime e patetico, viscido e viscerale [...]. Ambigua ossessione, esplicita autodistruzione», secondo Bittanti, la pellicola di Aronofsky «ti invade e ti possiede, ti seduce e ti ripugna».

La sezione “incontriepercorsi” prosegue dedicando ampio spazio all’ultima opera di Mike Leigh, Another Year. Secondo Fabio Vittorini, che analizza il film insieme a Franco Marineo, il regista inglese ci mostra come la nevrosi non sia appannaggio esclusivo della borghesia alta e delle grandi famiglie, ma, al contrario, di come rappresenti un veleno filtrato in ogni strato della società. Il redattore ricorda al lettore come questa considerazione si ponga in contrasto rispetto al pensiero nietzschiano secondo cui le classi colte dei paesi europei erano completamente nevrotiche. Per il giornalista, Another Year risulta «una pellicola pressoché perfetta nell’intarsio delle figure e delle loro fragilità», raggiunto attraverso un metodo consolidato: gli attori, tutti all’ennesima collaborazione con il regista, hanno provato per cinque mesi i loro ruoli improvvisando liberamente e fissando così le basi della sceneggiatura usata successivamente in fase di ripresa.

All’interno della stessa sezione, Marco Toscano propone un’interessante analisi de La donna che canta, seguita dall’intervista al regista, il canadese Denis Villeneuve. Attraverso uno stile al tempo stesso lucido e allucinato, grazie a una struttura narrativa segmentata eppure fortemente organica, Villeneuve riesce a restituire la complessità e la profondità del testo teatrale da cui è tratto (Incendies, Wajdi Mouawad) dove l’approccio razionale convive con la follia dell’uomo e della Storia. Dopo un breve cenno a Il discorso del re, la rivista riporta un breve colloquio tra John Landis e Federico Gironi a proposito di Ladri di cadaveri - Burke & Hare. Il regista, tornato sul set a distanza di dodici anni, parla della genesi del film, della transnazionalità del genere-commedia, confessando il suo amore per le black comedies degli anni Cinquanta, senza nascondere il suo punto di vista critico in materia politica e sociale. Terminata la massiccia e variegata sezione “incontriepercorsi”, il numero di marzo di «Duellanti» dedica un ampio speciale proprio alla “nuova commedia italiana”. Il direttore Gianni Canova, Anna Antonini e Rocco Moccagatta riflettono sul successo di pubblico riscosso da film come Benvenuti al Sud di Luca Miniero, Che bella giornata di Gennaro Nunziante, e Qualunquemente di Giulio Manfredonia. Al di là dei vari esiti artistici, secondo la rivista questi titoli impongono l’attenzione del critico cinematografico, soprattutto in merito alla loro diversità rispetto alla scena comica italiana da anni inchiodata ai “cinepanettoni” e ai loro stereotipi immodificabili. Su tutti gli interpreti spicca inequivocabilmente Antonio Albanese, che, come ci ricorda la Antonini, è prima attore e poi comico: «ciò significa non solo che ha studiato recitazione prima di diventare famoso (una circostanza che rischia di divenire sintomo di eccentricità), ma che volendo può allontanarsi dal proprio repertorio restando credibile, diventando drammatico e inquietante nel momento stesso in cui è comico».

Cambiando decisamente argomento, resta da segnalare la recensione di Un flauto magico di Peter Brook portato in scena al Piccolo Teatro di Milano. L’opera del regista inglese, secondo Vittorini, cerca di infondere nuova vita al capolavoro mozartiano, depurandolo dagli orpelli sedimentatisi nel tempo per farne affiorare il nucleo essenziale di umanità e poesia. Contravvenendo alle regole dettate dalla filologia drammaturgico-musicale, da vero cantore della genialità del semplice, Brook «insegue la rappresentazione distillata del cuore delle cose», proponendo una regia caratterizzata da soluzioni sceniche semplici, efficaci ed eleganti.


di Francesca Valeriani


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