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Bianco e Nero, a. LXXI, n.567, maggio-agosto 2010
Rivista quadrimestrale del Centro Sperimentale di Cinematografia - edizioni CSC

a. LXXI, n. 567, maggio - agosto 2010, 18 Euro

Ricerca teorica e ricerca storica sono le due principali direttrici che articolano questo numero intitolato Tempo e movimento dell’immagine, ideale fusione delle due anime che segnano gli studi di cinema contemporanei.

Attraverso la terza Critica di Kant, il pensiero di Deleuze e il Foucault de Le parole e le cose, nel saggio che apre il numero Roberto De Gaetano rilegge le facoltà che hanno le immagini di articolarsi in esperienza, ma anche di strutturare le forme del visibile per approdare alla riconfigurazione dell’esperienza sensibile, filo rosso attorno al quale si dipana il ragionamento, come «germe di una umanità nuova, di una nuova forma di vita individuale e collettiva» secondo quanto scrive Rancière.  E’ ancora teorico, ma declinato attraverso la prassi analitica attorno a una vasta serie di film a “struttura esplosa” (da Se mi lasci ti cancello di Gondry alle opere di Iñárritu, Tarantino, Lynch e Van Sant), l’intervento a seguire di Vito Zagarrio che si sofferma sulla convergenza fra le narrazioni prive di centro e le riconfigurazioni della mente umana nel nuovo scenario contemporaneo. Le modalità del racconto si rispecchiano, dopo la stagione della sperimentazione narrativa presente nel cinema (essenzialmente americano) degli anni Novanta, nella costruzione di “puzzle film” come Memento di Christopher Nolan che, mentre rivelano una compiuta crisi della forma narrativa tradizionale, inaugurano nuove posizioni spettatoriali all’interno della storia. Il “non saper più da che parte stare” dello spettatore disgrega i processi tradizionali di identificazione. Le strutture dei racconti di Babel e Le iene mettono in luce gli incroci del destino dei personaggi mentre i generi si rimescolano e il racconto, anche in film culto come Donnie Darko, rende sostanzialmente indecidibili meccanismi essenziali come il flashback e il flashforward.  Il “pensare digitale”, dunque, innerva le storie sotto il segno di una babele di informazioni e di testi che lo spettatore deve fronteggiare. «Nel labirinto mediatico in cui deve orientarsi», scrive Zagarrio, «è sempre più difficile prendere posizione ed esprimere giudizi, offrire analisi ‘scientifiche’».

Dalla teoria, del cinema e del film, alla storia di entrambi. Nella sezione “Mappe” quattro saggi sono dedicati alla documentazione e ricostruzione di altrettante vicende del cinema italiano.

Tommaso Subini  esamina i documenti relativi alla diatriba censoria, sorta in ambito cattolico all’indomani dell’uscita de La dolce vita di Fellini, attingendo al Fondo Montini dell’Archivio Storico della Diocesi di Milano. Gli agenti in campo sono l’arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, e padre Nazareno Taddei, capro espiatorio che pagò con la rimozione dal proprio incarico la relativa indipendenza di giudizio espressa dai gesuiti che animavano il Centro Culturale San Fedele di Milano. La loro accoglienza favorevole al film di Fellini, strenuamente ostracizzato dalle gerarchie ecclesiastiche, venne aspramente punita: i documenti ritrovati permettono all’autore di fare luce sull’intero episodio.


Assai più complesso il lavoro di Alessandro Faccioli che ricostruisce con estrema perizia i numerosi episodi di manipolazione audiovisiva nei documentari di montaggio sulla Grande Guerra. La disamina dell’autore conduce all’episodio chiave di Caporetto, già rimosso dal racconto per immagini autorizzato dal fascismo ma anche in seguito largamente omesso e interpolato per conformarsi alla volontà di trasmettere la memoria del conflitto che vide l’Italia vincitrice. Caporetto resta una sorta di buco nero del sacrificio collettivo raccontato attraverso immagini arbitrariamente associate alla battaglia. Sorprendentemente anche nei prodotti didattici contemporanei si trovano tracce di questo atteggiamento, mentre alcune produzioni Rai, fin dagli anni settanta, attingendo ai filmati austroungarici documentano «la perdita copiosa di materiale bellico e la riduzione a prigionieri di schiere di soldati italiani». Il saggio si chiude sui film di Gianikian e Ricci Lucchi (Prigionieri della guerra, Su tutte le vette è pace e Oh! Uomo), composti da filmati provenienti dai maggiori archivi europei e che raccontano la sofferenza umana su tutti i fronti attraverso il riutilizzo libero e creativo delle immagini della Grande Guerra.


Una disamina del ruolo della tradizione documentaristica nella formazione del film neorealista è offerta dal saggio di  Luca Caminati che precisa le influenze del cosiddetto “documentario narrativo” sul cinema di Rossellini e De Sica. Il genere,  che segna la decade 1933-1943, influenzato dalle pratiche di Grierson e Flaherty, conduce fino a Tabu di Murnau. Ma è nell’opera di Alberto Cavalcanti, docente al Centro Sperimentale e modernizzatore del genere, che l’autore individua l’elemento di concreto raccordo fra lo story-documentary e l’intermediazione culturale di Barbaro e Pasinetti che conduce fino a Uomini sul fondo di De Roberti. Chiude la sezione uno studio articolato e dettagliato di Enrico Biasin sul colossal africano Abuna Messias di Alessandrini, definito «blockbuster autarchico» ed esaminato nella sua vocazione ideologica quale portavoce di una mitologia imperiale volta a legittimare il colonialismo italiano. Chiude il numero una ricostruzione dettagliata sulla presenza delle pellicole sovietiche nella Mostra del Cinema degli anni Trenta di Stefano Pisu.




di Cristina Jandelli


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