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Duellanti, a. IX, n. 67, Gennaio-Febbraio 2011


«Duellanti», anno IX, n. 67, gennaio/febbraio 2011
ISSN 1724-3580

A distanza di sei numeri, il corpo di Matt Damon filmato dalla macchina da presa di Clint Eastwood torna a occupare la copertina di «Duellanti». Se nel numero del marzo scorso Damon vestiva i panni del giocatore di rugby François Pienaar, adesso interpreta il sensitivo George Lonegan di Hereafter. Giovanna Bragana intervista il cineasta americano, interrogandolo sulla genesi del film, sullo script e sulla scelta dell’attore protagonista. Eastwood rivela il suo futuro progetto, ovvero la realizzazione di una pellicola su John Edgard Hoover, direttore dell’FBI negli anni 1924-1972, con protagonista Leonardo DiCaprio. Il regista racconta la sua particolare esperienza nell’aver girato con giovanissimi interpreti. «I bambini sono attori naturali purché tu dia loro una chance: hanno amici immaginari, dialogano con loro quando pensano di non essere osservati. Il trucco è fornire loro piccoli espedienti tecnici senza che pensino di essere a scuola, casualmente, tra una scena e un’altra». Nella scheda successiva, Massimo Rota definisce il film di Eastwood: «un dialogo filosofico, diario esistenziale, racconto corale. Hereafter scava nei sotterranei della narrazione e nelle sconfinate possibilità dell’atto mancato». Mario Serenellini riporta un’affermazione dell’attrice protagonista del film, Cécil De France, in grado di farci comprendere la passione e la determinazione di un autore come Eastwood: «Quando abbiamo girato in un’enorme piscina la sequenza subacquea dove sono stata travolta dallo tsunami lui, che non riusciva a seguirmi sul monitor, non ha esitato a buttarsi in acqua, a ottant’anni, in apnea, per seguire da vicino le riprese».

Dopo l’ampio spazio dedicato all’ultima opera di Eastwood, Carlo Chatrian e Fabio Vittorini analizzano Noi credevamo, di Mario Martone, presentato in concorso alla scorsa Mostra d’Arte cinematografica di Venezia. Chatrian pone l’accento sulla serietà e la meticolosità storica che caratterizza l’opera di Martone, assai complessa e appassionata: «se un film storico, come afferma Sorlin, si definisce in base alla sua riconoscibilità come tale da parte di un pubblico, la scommessa maggiore di Martone è quella di presupporre un pubblico adulto, critico e informato sulle vicende che racconta. La visione dell’Unità d’Italia non è tanto nelle immagini sullo schermo, quanto nella testa dello spettatore a cui è chiesto di colmare dei buchi, di elaborare dei raccordi». Secondo il critico, l’Italia immaginata da Martone è un laboratorio europeo, dove l’unità si raggiunge conservando l’eterogeneità di un tessuto sociale, economico, culturale e linguistico. Per Vittorini, Noi credevamo, virtualmente segmentato in quattro sezioni, è un film narrativamente apparentato con la sinfonia e con l’opera lirica. Il redattore si scaglia con veemenza contro una certa parte di critica che ha giudicato in modo negativo il film, schernendo la messinscena di alcuni episodi che Vittorini sottolinea essere realmente accaduti. Secondo il critico, Martone tende a evidenziare l’impianto teatrale del suo film, sul modello di Senso di Luchino Visconti (1954): dalla scelta degli attori e dall’impostazione della recitazione all’andamento del racconto, che alterna sequenze in esterni e in interni. Coadiuvato dalla cultura musicale del maestro Roberto Abbado, secondo Vittorini, Martone ha compiuto delle scelte raffinate e ricercate, evitando il Va, pensiero verdiano e preferendo arie meno note, «più raccolte e meditative».

Sempre nella sezione “incontriepercorsi”, Alessandra Matella intervista Woody Allen sulla sua ultima fatica, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni. Le domande della redattrice si orientano sul sistema di lavorazione del regista e sul suo rapporto con gli attori. Allen sostiene di voler lasciare liberi gli interpreti, guidandoli e influenzandoli il meno possibile: «Se hai a disposizione interpreti di una simile levatura non ti resta che ascoltare. Impartisco poche direttive, poi sapendo di avere i migliori attori, li lascio fare». Infine, il regista newyorkese ribadisce il concetto che sta alla base del suo film: «l’unico modo per essere felici è mentire a se stessi». Marco Toscano, nella scheda dedicata al film, sottolinea come Allen sia «un lucido pessimista, né compiaciuto, né tantomeno ammorbidito dagli anni, che in ciascuna sua opera combina commedia e tragedia secondo un principio dissimulativo: la prima sembra la seconda e viceversa». Dopo un brevissimo spazio dedicato a La bellezza del somaro di Sergio Castellitto, la rivista propone un ricco e stimolante speciale su Carmelo Bene. Elisabetta Sgarbi ricorda la passione di Bene per l’esplorazione di tutte le sfumature e potenzialità della sua fisicità, il suo occhio sperimentatore, la sua voce attoriale «disincarnata». Per la Sgarbi, Bene apparteneva «alla stessa razza degli Antonin Artaud: puro genio senza corpo, o meglio genio in quanto calato volontariamente nel corpo (possibile) di tutti». Fabio Vittorini ricorda ai lettori come Carmelo Bene abbia lottato contro il naturalismo e la drammaturgia borghese di matrice ottocentesca, «riscattando l’attore dalla condizione riduttiva di mera maestranza (così lo aveva definito Silvio D’Amico) e restituendogli dignità di artista, personificazione assoluta del mezzo, con il compito altissimo non semplicemente di interpretare ma di ricercare testi anche classici nati dalla penna di scrittori talvolta indifferenti alle peculiarità del linguaggio scenico». Dario Zonta intervista Mario Masini, direttore della fotografia e operatore di macchina dei film di Bene. I due ripercorrono le tappe principali dell’inimitabile sodalizio a partire da Nostra Signora dei Turchi (1968). Nel ricordare il suo esordio cinematografico, Masini confida al suo interlocutore lo stato d’animo e la poetica dominante alla fine degli anni Sessanta: «Bisogna capire che noi arrivavamo dalla grande tradizione del cinema neorealista, dal quale avevamo imparato tanto. Poi c’era stato il cinema italiano degli anni Sessanta. Noi però ambivamo a fare qualcosa che fosse una nostra esperienza. Ad esempio non volevamo seguire delle storie ma provare qualcosa che andasse al di là della narrazione».

Posto nella sezione “necropolis”, resta da segnalare un intenso e prezioso omaggio a Mario Monicelli, scomparso il 29 novembre scorso. Morando Morandini e Mario Serenellini tentano di trasferire su carta i ricordi e le immagini di quasi sessant’anni di cinema (1949-2006). Oltre a richiamare alla memoria le preziose collaborazioni con i più grandi sceneggiatori italiani, Morandini sottolinea l’unicità caratteriale del regista viareggino: «È sempre stato, in crescendo, un uomo libero e ribelle ai tempi, alle istituzioni, ai potenti». Infine, nelle pagine conclusive, Serenellini riporta le commosse testimonianze di Gianni Amelio, Marco Bellocchio e Michel Ciment rilasciate in occasione della proiezione speciale de I compagni (1963) al 28° Torino Film Festival.

di Francesca Valeriani


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