Come sottolinea Elaine Aston nellEditorial il concetto di Radical bodies è il focus attorno a cui si annodano i contributi di questo numero. Gli aspetti che si intendono approfondire sono «the policitizing (sic) possibilities of theatre in relation to multifaceted questions of gender, cultural hybridity, identity and social democracy, in a rich and diverse range of performances and geographical locations».
Diana Looser analizza la performatività di tre donne vissute allinizio del Novecento che praticavano judo e ju-jutso: Fude Hamashita, Edith Garrud e Florence Le Mar. Attraverso lindagine storica lautrice riesce a evidenziare il modo in cui queste artiste riuscissero a coniugare la spettacolarità con la pedagogia e la filosofia femminista. Esse usarono il loro corpo per una performatività che trasgredisse qualunque preconcetto sociale e riuscirono a contrapporsi alle “aspettative” del mondo occidentale intorno alle abilità fisiche e allidentità culturale della donna. I punti forti dellindagine di Looser sono: riuscire a superare la divisione culturale tra lattivismo politico e il teatro popolare e mostrare una modalità attraverso cui le femministe militanti del primo Novecento crearono resistenza alle imposizioni della società patriarcale.
La Golden Bough Society è attiva dal 1993 ed è una tra le maggiori compagnie teatrali di Taiwan. I suoi componenti contestano la gerarchizzazione di una qualsiasi cultura colonizzatrice intesa come dominante e il loro lavoro è dedicato da sempre alla “decolonizzazione” della scena teatrale taiwanese e a una sua risemantizzazione culturale. Peilin Liang prende in considerazione The Lady Knight-Errant of Taiwan – Peh-sio-lan per evidenziare il modo in cui se da una parte libridismo culturale ne ha ispirato lestetica, la filosofia e la pratica scenica dallaltra la performance lavora nel senso della creazione di uno spazio di denuncia finalizzato al raggiungimento degli obiettivi del gruppo.
Anche Ashley Thorpe ingloba in qualche modo il concetto di cultural hybridity nel riferirsi alla tradizione del Jingju, il teatro tradizionale cinese di stampo iconico. Si analizzano le esperienze di due compagnie stanziate in Inghilterra, la UK Beijing Opera Society (non più attiva) e la London Jing Kun Opera (al suo nono anno di vita). Lorganico dei due gruppi era ed è composto da tre etnie: i cinesi, i cosiddetti overseas Chinese e gli occidentali. Il punto di partenza è la constatazione di come la performatività dellidentità etnica sia di importanza capitale nel lavoro di artisti lontani dalla patria dorigine. I diversi quesiti posti dallautore e da lui poi analizzati alla luce delle teorie di Judith Butler e Homi Bhabha sono però rivolti a evidenziare che la messinscena del Jingju da parte di artisti non autoctoni rende problematico la catalogazione del genere come «teatro autenticamente cinese».
Si segnalano infine i due contributi di S. E. Wilmer e di Karina Smith, affini per la tematica trattata. Nel primo si relaziona sullinquietante decisione di tre artisti sloveni di cambiare il loro nome in Janez Janšas, il primo ministro dellala destra. Due sono i punti interessanti affrontati: il rapporto tra arte e politica e il fatto che larte non rappresenti la soluzione ai problemi posti dalle strutture sociali oppressive ma offra piuttosto unopportunità di negoziato per valutare attraverso quali modalità tali difficoltà possano essere affrontate in politica. Nel secondo intervento si analizza loperato della Sistren, la compagnia teatrale giamaicana tutta al femminile, attiva fin dal 1977. Da una parte si evidenzia come ideologicamente il gruppo abbia sempre cercato di opporre un fronte di resistenza contro la politica neoliberale della Giamaica; dallaltra si sottolinea il contrasto per cui nel concreto la divisione di razze e classi sociali della società giamaicana fosse riprodotto allinterno del Sistren. Secondo lautrice questo accadde perché non si riuscì a creare un luogo di discussione sulla legittimità delle differenze, primo step per farle poi convivere democraticamente.
di Diego Passera
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