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Segnocinema, anno XXXI, n. 167, gennaio-febbraio 2011


n. 167, gennaio-febbraio 2011, pp. 82, Euro 6,50
ISSN 0393-3865

Il 2011 di "Segnocinema" si apre con la bella e dissacratoria foto di Jeff Bridges nei panni di Rooster Cogburn nel remake di True Grit dei fratelli Coen (difficile immaginare un attore più lontano dalla rigidità fisica e ideologica di John Wayne). Bridges campeggia in una inusuale copertina, che rappresenta più che altro una scelta di campo redazionale sul favorito per la corsa all’Oscar, dato che del film dei registi di Minneapolis non si parla mai all’interno della rivista (scelta che si è poi rivelata tutt’altro che beneaugurante, viste le decisioni dell’Academy).

Sebbene la copertina risulti fuorviante sul contenuto della rivista, sono davvero molti gli articoli interessanti presenti in questo numero di “Segnocinema”, a partire dallo speciale sul cinema di animazione curato da Andrea Fontana dal titolo Animazione: il futuro del cinema passa da qui. Otto articoli ed un fondamentale glossario di termini specifici compongono questa necessaria riflessione su quella che il curatore definisce «l’evoluzione e la rivoluzione di un linguaggio che nasconde il domani del cinema». Le innovazioni digitali che hanno portato alla realizzazione di film come Avatar o all’intera produzione di Robert Zemeckis nel nuovo millennio, pongono un serio problema di ridefinizione dell’immagine cinematografica e del suo rapporto con l’animazione, che sempre più va sostituendo il set all’interno del quale si muovono gli attori, i quali a loro volta sono spesso sostituiti da dei digital stunt che permettono di mostrare le sempre più attrattive evoluzioni di Spider-Man o dell’ultimo Superman. Lo stesso Fontana, nell’introduzione allo speciale, è estremamente consapevole del fatto che parlare di animazione vuol dire soprattutto confrontarsi con un pregiudizio diffuso che la relega a «sottogenere per bambini, al massimo per adolescenti», individuando proprio nella storica produzione della Walt Disney il motivo fondante di questo pregiudizio, un vero e proprio peccato originale. Non a caso quindi il primo articolo si intitola Oltre Topolinia: Enrico Azzano vi traccia un rapido panorama di quelle che sono le produzioni alternative ai blockbuster statunitensi Disney, Pixar, DreamWorks, Blue Sky Studios; a partire dai già noti francesi Sylvain Chomet (Appuntamento a Belville, 2003, e L’illusionista, 2010) e Marcel Ocelot (la saga di Kirikù, 1998 e 2005), per arrivare ad autori che raramente trovano un’adeguata distribuzione (specie nel mercato italiano) come Paul Mulloy, Bill Plympton, Anders Morgenthaler, Jannik Hastrup, Jirí Barta e molti altri che rappresentano la parte sommersa di quell’iceberg dal quale, di tanto in tanto, riescono ad emergere film come Persepolis di Marjane Satrapi o Valzer con Bashir di Ari Folman. Azzano volutamente non accenna alla produzione nipponica di cui si occupa invece Andrea Fontana nel suo Per un Sol levante animato, dove cerca di identificare i nomi che possono rappresentare il futuro di questo tipo di cinema, una specie di “oltre Miyazaki”, che rimane ancora il più importante punto di riferimento dell’anime giapponese. Dopo la prematura morte di Satoshi Kon (Paprika, 2006), i nomi su cui le due maggiori case di produzione giapponesi (Studio Ghibli e MadHouse) stanno scommettendo sono Makoto Shinkai, Hiromasa Yonebayashi, Mamuro Hosoda, Shuhei Morita e Yuasa Masaki.

Mauro Antonini nel suo Disegnocinema parla delle contaminazioni tra fumetto, animazione e live action, particolarmente significative all’interno di quella parte della produzione americana rappresentata dai Marvel Studios, che stanno riproponendo in maniera sempre più sistematica i supereroi dei loro fumetti in chiave cinematografica. Non potevano certo mancare interventi tesi a sottolineare il forte legame tra animazione e video arte (Bruno Di Martino, Arte Video, animazione, all’interno del quale segnalo un refuso riguardante le immagini di Recordare di Carrano e Pierattini e Tango di Rybczynski, le cui didascalie sono scambiate), animazione e videogiochi (Marco Benoît Carbone, Giochi animati, disegni giocati) e animazione e serie televisive (Guido Michelone, Simpson e TV series); anche se il vero piatto forte dello speciale è rappresentato dal saggio finale di Enrico Terrone dal titolo Sala di ri-animazione. Terrone pone la questione del «ruolo dei disegni animati nella teoria cinematografica», cercando di mediare tra la visione classica per cui «il tratto essenziale del film consiste nella sua natura fotografica» (Bazin, Kracauer) e le nuove teorie di Lev Manovich, «che trattano cinema fotografico come un incidente di percorso durato un secolo, ovvero come una malattia infantile novecentesca al termine della quale il cinema ritrova finalmente la sua essenza che consiste nella composizione grafica di serie di immagini animate». Chiaramente per Terrone bisogna trovare un punto di equilibrio tra questi due poli opposti; punto che viene individuato nella variante al “noema” della fotografia di Barthes («ciò che vedete, è stato»), fatta da Deridda e Stiegler: «ciò che vedete al cinema potrebbe essere stato», alla quale Terrone propone un’ulteriore variante specifica per l’animazione: «ciò che vedete al cinema vorrebbe essere stato».

È necessario segnalare la presenza di un bellissimo saggio di Luca Bandirali sull’importanza della scenografia nel cinema intitolato Topos in fabula, in cui egli sottolinea l’importanza basilare dell’elemento scenografico in tutti i suoi aspetti: narrativo, profilmico, grafico, sonoro e anche nell’organizzazione del montaggio, giungendo alla conclusione che «al cinema non c’è storia senza scenografia». Così come va evidenziato l’intervento di Roberto Pugliese sul rapporto privilegiato che si è instaurato tra il regista Robert Zemeckis e il compositore Alan Silvestri, dal titolo Le verità nascoste del soundtrack.

Particolare rilievo in questo numero assume la sezione dedicata ai Festival e alle rassegne dove si racconta l’ultimo Torino Film Festival, si parla diffusamente del Festival dei Popoli 2010 di Firenze e poi si accenna al Festival del Film di Roma, dando così l’impressione formale e sostanziale di una evidente classifica di importanza delle tre manifestazioni. A proposito di festival è molto interessante l’intervento Il festival che non esiste, scritto dal direttore responsabile Cherchi Usai, il quale passa in rassegna le tante tipologie festivaliere che si trovano in giro per il mondo, soffermandosi sulla scelta “estrema” fatta nel 1972 da William Pence e Jams Card, che hanno dato vita al Telluride Film Festival: un week-end di cinema in un pittoresco e inaccessibile paesino delle Montagne Rocciose, dove è possibile trascorrere tre giorni rilassanti in compagnia di tantissimi appassionati e di una decina scarsa di ottimi film, sui quali è possibile discutere con calma in un paesaggio che ricorda i film western di John Ford. L’ottimista Cherchi Usai «si rifiuta di credere che un festival del genere non possa più esistere», ovvero che questa formula non si possa esportare anche da noi, visto che il Telluride Film Festival è tuttora vivo e vegeto (si terrà il 2-5 settembre prossimi). Sarebbe davvero bello poter fare una manifestazione di questo tipo in borghi come Civita di Bagnoregio, almeno fino a quando simili borghi esisteranno.

 

 

di Luigi Nepi


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