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Max Reinhardt
Introduction, choix de textes et traduction par Jean-Louis Besson
A cura di Jean-Louis Besson

Arles, Actes Sud-Papiers, 2010, pp. 112, euro 14,00
ISBN 978-2-7427-9264-1

Max Reinhardt (pseudonimo di Max Goldmann, 1873-1943) è fra i teatranti famosi nel Novecento meno studiati in Francia; mentre in Italia conobbe forse la massima celebrità fra le due guerre. Strehler lo riconobbe antesignano, «il primo a sedersi nel buio della platea e a guidare gli attori e i tecnici a un’opera totale e collettiva, armonizzata e armoniosa» (in I sogni del mago, Milano,1995). Estratti dei suoi scritti sono ora inseriti nella collana Mettre en scène, diretta da Béatrice Picon-Vallin, che si prefigge di accostare e confrontare personalità «del passato e del presente» alla luce della crescente esigenza conoscitiva odierna. È lo stesso criterio adottato per la pubblicazione delle ricerche al CNRS in lavori di più grande impegno e dimensione. Sono dieci gli autori ad oggi antologizzati, da Gémier, Baty e Meyerchol’d, a Strehler, Mnouchkine e Lupa. Lo studio di Jean-Luc Besson, uno fra i rari conoscitori francesi di Reinhardt, comprende nella Biografia l’elenco degli allestimenti, finora inedito, come del resto la maggior parte dei testi tradotti dal curatore, estratti da scritti sparsi (redatti dal 1901 al 1938), pubblicati negli anni 1960 e raccolti nel 1989. I materiali riguardano tre tematiche: Perspectives pour un nouveau théâtre; Notes sur le travail de mise en scène; Les acteurs et le jeu, per undici articoli in totale. Affidandosi sempre a un discorso né teorico né sistematico, l’autore offre le proprie riflessioni su un’esperienza in corso, rapportata a prospettive ideali.

 

La prima impressione è di un artista soggetto a molteplici tensioni e attratto da mille stimoli, pure nella coerenza alla vocazione di base. Quella iniziale dell’attore – ruolo ritenuto essenziale nell’arte teatrale – si apre alla messa in scena come impresa di più totale responsabilità e portata. La presa di coscienza della varietà dei linguaggi e delle tecniche nuove (palcoscenico girevole, scena centrale) si accosta alla natura dell’interprete che pure nella sua preminenza, può partecipare in misura diversificata e graduale allo spettacolo, secondo ennesime varianti delle sue componenti. La sua battaglia antinaturalista (che ammette la dimensione illusionista della scena) non assume l’espressionismo nelle formule più intransigenti, ma oscilla fra intimismo (periodo del Kammerspiele) e spettacoli di massa, fino a progetti dalle dimensioni grandiose. La virtù creativa si esprime di volta in volta in luoghi dalle caratteristiche opposte: dal Deutsches Theater (dal 1894; poi diretto dal 1905 al 1933), al cabaret Schall und Rauch (1901) e al Kammerspiele (1906).

 

Idealità e prassi coabitano, dall’inizio, nei suoi progetti ambiziosi e nei suoi resoconti. Nel tempo del Naturalismo vincente e del Simbolismo calante, lungi ancora dalle avanguardie, Reinhardt si scopre profetico e/o programmatico (con intento pedagogico), più che teorico. Scriveva nel 1901: «Ce que j’imagine, c’est un théâtre qui redonne joie aux hommes. Qui les sorte de la grisaille du quotidien et les conduise au-delà d’eux-mêmes, dans l’éther gai et pur de la beauté» (p. 33). Spinto dal bisogno di un efficace rapporto col pubblico, adatta condizioni spaziali antitetiche, dall’intimità al rapporto collettivo; dal piccolo spazio alla monumentalità o al luogo aperto. Appena posteriore all’innovazione di Mejerchol’d e con qualche affinità al Théâtre National Populaire di Firmin Gémier, in Le théâtre vivant (1924) riconosce la molteplicità delle forme teatrali valide con toni idealistici ed esortativi (pp. 63-64). Poco dopo, per un théâtre idéal (1928) ricerca l’autore-attore (esemplare per lui in Shakespeare) e con la soppressione del sipario nella relativa struttura all’italiana, instaura il più vitale rapporto scena/sala (pp. 66-69).

 

Il curatore sintetizza la presentazione segnalando la qualità di innovatore e precursore, dedotta dalle realizzazioni dell’artista; ma nei limiti del volume, non si possono acquisire i documenti di tali allestimenti. Si può riflettere almeno sulla forma della preparazione, riscontrabile in quel cahier de mise en scène che il regista indica quale base della sua visione scenica. Secondo Besson, «pour lui, la représentation théâtrale, quelle que soit sa forme, repose avant tout sur l’acteur» (p. 22). E la conferma è nella testimonianza di Reinhardt, emessa precocemente nel 1914, sul lavoro preventivo minuto: «L’essentiel au debut est le travail à la table. Je me construis toute une partition. J’essaie de récréer pour moi-même l’oeuvre de l’auteur [...]. decouvrir la loi particulière de son architecture et ensuite de la reconstruire en tant que réalité simulée mais concrète» (pp. 55-56). Infatti è dell’ultimo periodo (1941) la ripresa dell’idea del cahier (fase comunque prevista anteriore alla lettura a tavolino) che distingue fra «la pièce lue et la pièce jouée», finché non si definisce l’insieme, per cui «on a une vision optique et acoustique parfaite. On voit chaque geste, chaque pas, chaque meuble […] chaque crescendo, la musicalité des phrases [...]. Puis on le met par écrit, ces visions optiques et acoustiques parfaites, comme une partition» (p. 72-73).

 

 

di Gianni Poli


La copertina

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