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Souvenirs pour demain
Une vie pour le théâtre


Paris, Éditions du Seuil, 2010, pp. 426, euro 23,00; Paris, Gallimard, 2010, pp. 168, euro 35,00
ISBN 978-2-02-103198-0; 978.2.07.013187.7

Un’autobiografia, già celebre alla sua uscita (1972) e un album di immagini, saggi e testimonianze, per i cent’anni dalla nascita di Jean-Louis Barrault (1910-1994): due volumi che si integrano fruttuosamente, dando luogo a una rievocazione memoriale e documentaria della vita del grande artista della scena novecentesca. Il primo, è libro di ricordi, sistemati secondo un progetto razionalmente finalizzato, in cui il ricorso alla memoria proietta verso un futuro ambito e utopico le acquisizioni verificate nel presente, in una sorta di diario rielaborato. Il secondo, accosta ai saggi su diversi aspetti dell’attività di Barrault un’iconografia preziosa e talvolta inedita.

 

Souvenirs pour demain parte da lontano, avanti la nascita, nel riordinare e meditare avvenimenti su cui la testimonianza personale cosciente assume via via valore di giudizio oggettivo. «Bien malin celui qui peut dire quelle a étè exactement sa vie!» (p. 27). La Préface è di un discepolo e fan della prima ora che, dopo avere attraversato le fasi dell’imitazione e del desiderio di identificazione col proprio modello, tenta un bilancio storicizzato della sua opera. Non agiografia, ma testimonianza anche sentimentale, per cui l’affetto si misura con l’uomo e l’artista conosciuti principalmente in palcoscenico; compresi i riflessi critici che ne hanno accompagnato e determinato la fama. «Ce livre était donc un manuel fantasmatique» (p. 11), per il lettore affascinato e coinvolto nella propria esperienza formativa. Jean-Louis respira dagli anni Trenta il clima particolarmente creativo della sua Parigi. Da Charles Dullin attinge i principi che ne informeranno costantemente condotta e ideali. «A chaque instant de l’existence, nous vivons au moins sur trois plans: - on est; - on croit être; - on veut paraître. Ce que l’on est - on l’ignore. Ce que l’on croit être – on s’en fait une illusion. Ce qu’on veut paraître – on s’y trompe» (p. 27). Fra i ricordi, confessa l’autore, «j’ai choisi ceux qui m’ont frappé… frappé comme on frappe une médaille» (p. 29). Scherzoso e scettico, si confronta a Freud  (p. 35); Scienza e Poesia gli rivelano i campi d’influenza reciproca sul proprio agire, in scena e nel mondo (pp. 37-38). Orfano di padre a otto anni, dichiara: «J’ai passé ma vie à rechercher le Père» (p. 48). Dell’infanzia e dell’adolescenza, recupera i momenti segnati dalle aspirazioni più profonde verso l’affermazione individuale. Ma anche bellezza e armonia sono convocate, in un ordine che la persona deve conseguire responsabilmente. L’inclinazione umanistica del primo Barrault si riversa in bisogno di scambio sociale dopo l’affermazione della vocazione più intima: «Ma nature craintive a besoin de société et je ne peux retrouver la solitude que dans le monde» (p. 61). Il determinismo della Storia e della Natura è accolto dall’insegnamento degli Antichi: «Je trouve capital le sens du Destin selon Eschyle. Notre Destin est la risultante de trois forces: - L’héritage moral du passé...; - Le tracé de l’avenir... – L’opportunité du hasard dans le présent... » (p. 67).

 

Dopo i mestieri di contabile, fioraio, sorvegliante di collegio, è lo studente di Belle Arti che si indirizza al teatro, grazie all’impulso di scrivere al direttore dell’Atelier e alla risposta favorevole, che lo raggiunge nel ventunesimo compleanno. Allora comprende: «Faire du théâtre, c’est exorciser les démons de notre Personnage» (p. 83) e si lancia nell’avventura della sua vita. Momento che anche nell’Album viene adeguatamente documentato; come risulta vivace la rievocazione (nei due libri) dei contatti con Artaud e con Decroux, che comportano risultati sia nella teoria della corporeità alchemica, sia nell’allenamento in cerca del “mimo assoluto”. In nessuno dei volumi si affronta direttamente il problema della scelta della vocazione espressiva, che l’artista risolse passando di fatto dal mimo al “teatro totale”. Lo stesso Barrault ne è comunque cosciente: «Le génie de Decroux est dans sa rigueur. Mais sa rigueur finissait par être oppressante [...]. Qui avait tort? Qui avait raison? Dommage!» (pp. 94-95). Un’insolita riflessione tocca poi Teilhard de Chardin, scienziato e teologo, del quale considera l’idea secondo cui la materia sia “perfettibile” (p. 116) in una mistica perseguibile senza la fede rivelata. Segue l’elaborazione di una teoria del corpo mediante un’analisi del linguaggio corporale, a cui il regista-attore si dedicò fino alla fine, presentando uno spettacolo-conferenza, Le langage du corps. Altro evento-chiave, l’incontro con Madeleine Renaud, di cui resta ancora da valutare la portata nell’opera comune, in Compagnia e nelle creazioni più singolari. Le belle, icastiche immagini dell’Album, nei ruoli creati dall’attrice in opere di Dubillard, Beckett, Duras, Higgins, restituiscono impressioni e valutazioni della sua arte.

 

Eventi storici riprendono rilievo, da Les paravents di Genet rappresentato con “scandalo” all’Odéon, a La tentation de Saint Antoine, di Flaubert, diretta da Béjart, causa di tanta gioia estetica nella condivisione del successo. I fatti del Maggio vi sono riportati in un diario serrato e sconvolto, commosso e dignitoso per la partecipazione civile a un trauma personale e nazionale. Il Diario che procede fino ai giorni dell’allestimento del Rabelais («Il est donc la Vie même, au sens biologique du mot», p. 415); continua negli ulteriori traslochi, per chiudersi con l’esortazione a non giudicarlo da scrittore; ad accettarlo come un uomo che ha sempre cercato, fino al pianto, fra la disperazione della fine e l’esaltazione della gioia di vivere. Così, anche a causa del carattere antinomico della sua condizione di artista eclettico, la bella e gratificante rassegna allestita nell’Album sa un po’ di celebrazione. Vi si legge una suite biografica che, senza aggiungere o svelare, stabilisce linee e momenti necessari alla conoscenza dell’apertura originale della strada dell’artista. Le fotografie del periodo Trenta-Quaranta, integrano e precisano segni già noti, con scenografie, costumi, istantanee di prove e momenti conviviali: la ricchezza degli Archivi, presso la B.N.F. è tale da suscitare sempre sorpresa. Le stagioni si susseguono, dal Marigny all’Odéon, con le presenze dei contemporanei in via di canonizzazione, Ionesco, Beckett, Genet, Dubillard, Billetdoux, Duras e Vauthier; all’ospitalità concessa agli esponenti della scena internazionale. E proseguono coi trasferimenti alla Gare d’Orsay e al Rond-Point. Preziosi gli articoli di Boulez sulla Musica; di Uhry sulla collaborazione con André Masson, di cui si riproducono mirabili bozzetti; Guy-Claude François riscopre in un’Intervista del 1974 la funzionalità mutevole degli spazi scenici allestiti e vivificati da Barrault. L’incontro a Tokyo con Hisao Kanze è raccontato da Béatrice Picon-Vallin, soffermandosi sull’interesse per il Nô; poi, le metafore che Christian Schiaretti adotta a fecondare la sua creatività di metteur en scène al TNP di Villeurbanne e per chiarire i rapporti tutt’ora complessi fra Compagnia (privata) e Istituzione (pubblica). La sensibilità dell’attore per la Danza è sottolineata da Podalydès: «Si on établi une ligne Artaud-Decroux-Barrault, on arrive nécessairement à la Danse [...]. Barrault finissait toujours pour danser le rôle» (Album, p. 141).

di Gianni Poli


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