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Duellanti, a. IX, n. 66, novembre 2010


Duellanti, a. IX, n. 66, novembre 2010, € 6.00
ISSN 1724-3580

Nella sezione “radiografie” del nuovo numero di novembre Matteo Bittanti e Franco Marineo analizzano The Social Network di David Fincher. Nel primo intervento, Bittanti riflette sull’ideologia feroce e superficiale che sottende il fenomeno Facebook, concentrandosi in particolare sul personaggio di Mark Zuckerberg: «il fatto che un individuo egocentrico, megalomane, incapace di provare la minima empatia per i propri simili abbia creato un sito che, almeno sullo schermo, ha la funzione di mettere in contatto le persone è solo uno degli innumerevoli paradossi della storia (micro) e della Storia (macro)». Per il critico, l’opera di Fincher possiede lo spessore narrativo e il pathos di Quarto potere (Citizen Kane, Orson Welles, 1941). Anche Marineo, per esaminare il nuovo film di Fincher, cita uno dei più grandi capolavori della storia del cinema. Il redattore sostiene che la distanza tra il carattere del giovane geek e quello di Charles Foster Kane rappresenti solo la più superficiale manifestazione di una sostanziale rivoluzione in atto nel nostro presente: «Kane è il magnate che si impone per potenza di mezzi e coraggio in una società molto verticale, mentre il successo di Facebook è la chiave per leggere un mondo orizzontale, in cui la connessione non è solo l’accesso alla Rete o la costruzione di un legame virtuale, ma diventa letteralmente il motore di ogni pensiero o azione». Bittanti e Marineo si trovano concordi nell’osservare come la narrazione scelta per dar vita a The Social Network sia destinata a porre le basi per una nuova forma di classicità che mira a raccontare i mutamenti concettuali e relazionali del contemporaneo a partire dalla comparsa di un’idea semplice quanto decisiva. Secondo Marineo, con The Social Network Fincher «lascia da parte la vertigine dello stile e immette un ritmo da thriller in un film di soli dialoghi».

Nello spazio successivo, quello di “incontriepercorsi”, Bittanti, Luca Barnabé e Massimo Rota difendono la violenza, il sadismo e il maschilismo espressi nell’ultima pellicola di Michael Winterbottom, The Killer Inside Me. Tratto dal celebre romanzo noir dell’americano Jim Thompson, sceneggiatore tra l’altro di Rapina a mano armata (The Killing, Stanley Kubrick, 1956) e Orizzonti di gloria (Paths of Glory, S. Kubrick, 1957), il film di Winterbottom, così come il romanzo datato 1952, dà corpo e voce al vice sceriffo di un paesino texano (Casey Affleck), che si rivela presto un personaggio nevrotico, animato da incontrollabili impulsi violenti. Secondo Barnabé, il regista inglese traduce perfettamente in termini visivi l’atmosfera descritta da Thompson, scegliendo «una messinscena fatta di brutalità insostenibile, atmosfere vintage, crudezza impensabile all’epoca in cui è stato scritto il libro (tempi di Codice Hays)». Rota ripercorre la carriera artistica del romanziere americano, citando le sue opere di maggior successo, come Colpo di spugna (Pop. 1280,1964), Getaway (Id.,1959) e Rischiose abitudini (The Grifters, 1963), da cui Bertrand Tavernier, Sam Peckinpah e Stephen Frears hanno tratto i film omonimi.

Mario Serenellini intervista Sylvain Chomet, regista francese divenuto celebre grazie al successo di pubblico e critica riscontrato con Appuntamento a Belleville (2003). Dopo quattro anni di intenso lavoro, Chomet ha portato alla luce una sceneggiatura inedita di Jacques Tati risalente al 1959, realizzando un film di animazione intitolato L’illusionista. Nel suo secondo lungometraggio, il giovane regista francese riesce allo stesso tempo a rimane fedele alle manie e agli stati d’animo di Monsieur Hulot e alle tecniche di ripresa di Tati, come i lunghi piani sequenza, inconcepibili e inusuali per le pellicole di animazione odierne. Prima di tradurre la sceneggiatura in cartoon, Chomet ha studiato attentamente la fisicità e la gestualità dell’impareggiabile attore, rivedendo opere cardine come Mon oncle (1958) e Play Time (1967). Chomet confida al suo interlocutore di essersi ispirato anche alla produzione disneyana degli anni Sessanta-Settanta (La carica dei 101, Il libro della giungla, Gli aristogatti), caratterizzata dall’energia e dalla rugosità grafica tipica del tratto a mano, «imperfetto ma palpitante, più vicino alla realtà degli esseri umani della levigatissima elettronica».

Un altro film di animazione attira l’attenzione della rivista: si tratta del capolavoro di Hayao Miyazaki, Porco Rosso, uscito nelle sale italiane con l’incredibile ritardo di diciotto anni. Per Massimo Causo, Porco Rosso è nutrito da un sentimento di pienezza che non ha eguali nella filmografia del maestro nipponico. Ambientato nel nostro Paese, l’opera di Miyazaki vede come protagonista Marco Pagot, ex pilota dell’aviazione militare, colpito da un misterioso incantesimo che lo ha trasformato in un maiale antropomorfo. Secondo il critico, una simile metamorfosi rimanda alla condizione irrisolta di un’umanità storicamente sospesa tra le due grandi guerre e in fuga dai fascismi che in pochi anni avrebbero distrutto il mondo intero. Il film d’animazione presenta molteplici citazioni e omaggi, a partire dalla scelta del cognome dell’aviatore, preso in prestito dai fratelli Pagot, con cui il regista giapponese aveva lavorato ai tempi della serie televisiva Il fiuto di Sherlock Holmes (1984). Inoltre, grazie a Porco Rosso, Miyazaki riesce a manifestare la sua nota passione per il volo, che trova libero sfogo nella realizzazione dei dettagli di aerei e motori.

Rimanendo in ambito orientale, «Duellanti» dedica un ampio speciale a Wang Bing, regista di The Ditch, scioccante lungometraggio sul regime comunista cinese, presentato in concorso come “film a sorpresa” alla 67ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. La rivista riporta le dichiarazioni più significative di Bing rilasciate in occasione della conferenza stampa svoltasi al Lido. Il regista cinese afferma di essere fortemente influenzato dal cinema europeo, in particolare dal neorealismo e dalla Nouvelle Vague, studiato in giovane età presso l’Accademia del cinema di Pechino. Bing considera Michelangelo Antonioni come un imprescindibile punto di riferimento per il suo percorso artistico. Secondo Wang Bing, con il documentario Chung-Kuo Cina (1972) il regista ferrarese ha saputo restituire la vera immagine della Cina, a differenza delle numerose opere nazionali di propaganda girate negli anni Cinquanta e Sessanta. Massimo Rota polemizza con fermezza sul verdetto espresso dalla giuria della Mostra veneziana, colpevole di aver sottovalutato un vero e proprio «capolavoro». Considerato da Rota come «il maggior documentarista vivente», Bing va al di là della perfezione formale, per dar vita a uno stile puro, caratterizzato dallo sfacelo e dalla dissonanza, allontanandosi da qualsiasi parvenza di spettacolarizzazione.

 

di Francesca Valeriani


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