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Prove di drammaturgia, a. XVI, n. 1, giugno 2010
Dramma vs postdrammatico: Polarità a confronto

A cura di Gerardo Guccini

a. XVI, n. 1, giugno 2010, pp. 72, euro 10
ISSN 1592-6680 (cartaceo); 1592-6834 (on line)

Con questo numero, dedicato a Dramma vs Postdrammatico: Polarità a confronto, «Prove di drammaturgia» conclude il progetto Scritture per la scena, iniziato con il numero precedente, e raccoglie gli interventi dei relatori dell’omonimo convegno, organizzato da Marco de Marinis e Gerardo Guccini (Bologna, 26 novembre 2009).

 

In apertura troviamo un contributo di Hans-Ties Lehmann in cui lo studioso tedesco intende far luce sul fatto che con Postdramatisches Theater (1999) non intendesse riferirsi a una pratica scenica priva di un testo drammatico di riferimento. D’altra parte egli stesso, per il suo lavoro di autore, ha sempre preso le mosse dalla testualità. Postdrammatico è semmai più vicino a quello che intende Peter Szondi (che non a caso è ricordato in quasi tutti gli interventi) quando parla di «crisi del “dramma moderno”»: il dramma si è arricchito di potenzialità sconosciute alla sua forma classica.

 

Segue la stesura scritta di una tavola rotonda con Lehmann, in cui Fabio Acca, Giorgio de Gasperi, Giuseppe Liotta, Sonia Antinori, Charlotte Ossicini e Gerardo Guccini ricevono dallo studioso tedesco le risposte ai loro interrogativi su varie questioni: il teatro pop, l’iper-regia, il chortheater, Brecht, Crimp, Kane, l’attore e l’attore post-drammatico.

 

Si apre quindi la sezione dei papers presentati al convegno. A partire dal rapporto tra drammaturgia e messinscena così come è stato nuovamente (ri)definito da Lehmann stesso nel suo intervento citato sopra, ciascun saggio approfondisce un problema specifico. Elemento comune a tutti rimane la centralità dei conflitti che hanno caratterizzato il Novecento (in primis, e ovviamente, le due guerre mondiali) e il fatto che l’attività teatrale contemporanea debba in qualche modo farsene eco, visto il suo (presupposto?) ruolo sociale.

 

Marco de Marinis mette in evidenza come “dramma” e “postdrammatico” siano, in realtà, due polarità tra le quali si può individuare una quantità potenzialmente infinita di esperienze scenico-drammaturgiche. Non ha più senso indagare la presenza o meno di un testo di riferimento per la messinscena: è molto più proficuo e corretto concentrarsi sulla complessità semantica del ”testo” (linguisticamente parlando). Fin dagli anni 1980, sia lui che Valentina Valentini hanno indicato nell’esperienza di Magazzini (Criminali), La Gaia Scienza e Teatro Valdoca un ritorno al testo, fosse pur come semplice materia fonica, sperimentazione linguistica, o, addirittura, invenzione lessicologica. Alla luce di quanto detto, de Marinis evidenzia che la «prospettiva postdrammatica» è attiva a tre livelli: la composizione drammaturgica (a partire dall’esperienza di Jarry, si sono distrutti gli elementi intrinseci al dramma classico); la messinscena (si è sistematizzato il lavoro volto al superamento di una visione testo-centrica); gli studi teatrali (il discorso è più ampio e complesso e ha comportato: una messa a fuoco del testo più come prodotto teatrale che letterario; una revisione dell’essenza del dramma anche per i secoli passati – fino al XVII; la sempre maggior attenzione al processo di composizione drammaturgica, più che al suo prodotto finito).

 

Anche Jean-Pierre Sarrazac ribadisce che l’epoca del postdrammatico non coincide affatto con l’obsolescenza o la morte del dramma. In questo egli vuole contrapporsi a quella parte della critica di stampo hegeliano – rinvenuta nella direttrice che va da Lukàcs ad Adorno – che non ha saputo tenere nel giusto conto l’ultimo Beckett né Strindberg. Sarrazac sostiene che dagli anni 1880 ad oggi si sia sviluppato un nuovo paradigma del dramma – da lui definito «dramma-della­-vita» – scaturito da un momento di rottura (secondo la successione delle epoche teorizzata da Thomas S. Kuhn). Proprio negli ultimi venti anni dell’Ottocento si sarebbero poste le basi del dramma moderno e la creazione drammatica contemporanea (fino ai giorni nostri) continuerebbe a basarsi su quelle fondamenta, conducendo un costante lavorio di approfondimento.

 

Piersandra di Matteo si concentra sullo spazio della verbalità nei fenomeni teatrali post-novecenteschi. Vista la presunta funzione sociale del teatro, le forme complesse del dramma moderno sarebbero ricollegate alla complessificazione della comunicazione (di massa), di cui il dramma stesso dovrebbe farsi portatore. Seguono due esemplificazioni del discorso: da una parte quelle performatività che trovano nel «minimalismo afasico» la risorsa per la totale distruzione del dialogo; dall’altra le esperienze, che optano per una «ri-funzionalizzazione critica» del testo drammatico.

 

Anna Barsotti si oppone intenzionalmente agli «integralisti (per così dire)», nell’affermare che la dicotomia del topic del convegno è in realtà apparente. La dimostrazione concreta delle sue speculazioni vuole essere l’esperienza di Emma Dante, che ha fatto dell’attraversamento, del travalicamento e del rovesciamento le cifre stilistiche del proprio lavoro di drammaturga. Il teatro proposto da questa eclettica attrice-autrice sembrerebbe sfuggire a all’afferenza totale sia al drammatico che al post-drammatico. Barsotti focalizza la sua attenzione sulla lingua utilizzata in drammi quali mPalermu, Carnezzeria, Vita mia per riannodare il bandolo della matassa intorno a quello da lei proposto come il «rovesciamento speculare del conflitto/confronto fra dramma e post-drammatico».

 

Per Dario Tomasello l’esperienza italiana degli ultimi anni, sembrerebbe indicare un’inversione di tendenza: si starebbe tornando gradualmente al testo drammatico. L’esempio cui l’autore decide di riferirsi è quello offerto dall’esperienza di Spiro Scimone e Francesco Sframeli e dal peculiare (ri)utilizzo del materiale linguistico di partenza per la messinscena delle loro riscritture di Aspettando Godot, Nunzio, Finale di partita, Amleto, Sogno di una notte di mezza estate, Misura per misura.

 

La dimensione dell’oralità sarebbe profondamente connessa alla drammaturgia di autori, attori e registi dell’epoca della televisione. L’Orghast di Peter Brook, il Kaspar di Peter Handke, L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett e l’esempio di Carmelo Bene e di Franco Scaldati sono esperienze consolidate di funzionamento di quei dispositivi dell’oralità cui si riferisce Valentina Valentini. Al contrario i cosiddetti narratori – Celestini, Paolini, Baliani, Enia… – anche se stabiliscono un rapporto diretto con il pubblico, causerebbero la distruzione dei dispositivi tipici della comunicazione teatrale.

 

L'intervento di Lorenzo Mango rappresenta un'inversione di tendenza rispetto ai suoi colleghi per il fatto che propone una nuova metodologia di indagine intorno al problema del dramma nell’epoca del postdrammatico. Egli evidenzia come tutte le esegesi tendano a procedere per antinomie «di tipo concettuale e terminologico» (presupposte se si vuole già nella dicotomia Dramma vs Postdrammatico). Intendendo la performance novecentesca come un fatto eminentemente visivo (secondo le teorie craighiane), Mango sostiene che non bisogna più interrogarsi sul fenomeno di destrutturazione del Dramma, tenendo quest’ultimo come filtro principale delle analisi, ma è necessario spostare il focus di indagine: qualunque interpretazione deve muovere da una riflessione sul concetto di “scrittura scenica”. In questo modo è possibile, forse, proporre nuove letture che rendano pienamente conto di un fenomeno tendenzialmente intollerante a qualunque classificazione e ogni volta sempre diverso da sé.

 

Ulteriore arricchimento è l’intervento di Gerardo Guccini, non a caso posto a conclusione: sorta di riepilogo di quanto esposto in precedenza. Qui si sposta l’attenzione sui contenuti fisiologici del teatro postdrammatico (perché il teatro è un organismo vivente), contrastando la lettura necroscopica proposta da Theodor W. Adorno (già ricordato da Sarrazac). Si muove dalle varie declinazioni che del concetto di drammaturgia sono state proposte nel tempo («spazio letterario del teatro»; «drammaturgia consuntiva»; «oggetto mobile fra autore e attore») e si analizzano le fasi progettuali del lavoro di Goldoni in relazione ai rigidi schemi della processualità retorica classica. È nel peculiare modus operandi di quest'ultimo che, secondo Guccini, si rintraccerebbe il fulcro di quella che si può definire come una «rivoluzione copernicana della scrittura drammatica», i cui echi gradualmente si amplificheranno e arriveranno a sistematizzarsi nel Novecento: «si passa da un logocentrismo in cui il testo connette l’individuazione processuale dei propri contenuti all’azione del performer (sia questo scenico oppure oratorio), a un primato dell’actio che ricava l’elocutio dal parlare di performer mentalmente attivi».

 

Agli interventi del convegno seguono uno scritto di Renata Molinari, che racconta l’esperienza vissuta in collaborazione con Claudio Meldolesi per la stesura de Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote (2007); un breve intervento di Fabio Acca, in cui si riflette sulle nozioni di “storia” e “memoria” in relazione all’esperienza dei Motus, di Accademia degli Artefatti e del Teatro delle Albe; una Conversazione dello stesso Acca con Daniela Nicolò e Enrico Casagrande dei Motus e, infine, una Conversazione di Gerardo Guccini con Marco Martinelli (Teatro delle Albe) sulla sua trilogia ricavata da Philip Dick (Mondi paralleli, 1983; Effetti Rushmore, 1984; Rumore di acque, 1985).

 

 

di Diego Passera


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