Ci sono personaggi talmente importanti che ormai sono “patrimonio universale”: la vita, larte, il lavoro, perfino la quotidianità di questi Grandi, ci sembra di conoscerle a fondo. Per questo crediamo che non ci sia più granché da scoprire. Fatto comune e comprensibile per una società incancrenita dal Confessionale del Grande Fratello. Ma se si abbandonano le coordinate socialmente deprimenti dello show business e ci si avventura nelluniverso della vera Arte (del teatro nel nostro caso, ma non è lunica, ovviamente!) la banale erroneità del precedente assunto è evidente e non richiede ulteriori chiarimenti.
Non solo. I “mistici” depositari della suprema conoscenza (Socrate docet) tendono a salvaguardare il loro sapere dalla indiscriminata e selvaggia divulgazione e a proteggerlo nei “dorati templi” di craighiana memoria. Perché, semplicemente, il volgo non è allaltezza e gli addetti ai lavori non sono pronti alla comprensione. Craig e Grotowski. Il primo, uno tra i “padri fondatori” della regia; il secondo, uno degli “imprevedibili nipoti” di quella composita generazione (Schino, La nascita della regia teatrale, Roma, Laterza, 2003). Entrambi protettori del loro sapere (fino alla mania), tanto che sia delluno sia dellaltro ancora si può e si deve scoprire, capire, e dire molto. E la ricerca, quando è libera dai dogmi accademici che ne imbrigliano lo sviluppo, riesce a dare risultati eccellenti. Riprova ne sia questo numero di «Teatro e Storia», il cui dossier Grotowski 2009 – Dettagli e Materiali, che, come scrive Mirella Schino, «a posteriori […] sembra caratterizzato da domande, esplicite o inespresse» (p. 8), non solo appare necessario, ma riesce a rivelarci ancora molto sul lavoro del Maestro, a dieci anni dalla sua morte, fornendo ulteriori nuove interpretazioni e documenti inediti.
Franco Ruffini (Necessità e Virtù. «Per un teatro povero», al futuro) riprende un precedente lavoro da lui stesso curato (pubblicato in «Teatro e Storia», n. 20-21, 1998-99, pp. 281-82) per andare oltre laspetto materiale dellanalisi intratestuale e favorire un approccio intertestuale, che evidenzi come Per un teatro povero (1968) sia il «primo libro per altri libri di Grotowski a venire» (p. 134). Ruffini lavora alla ricostruzione dellannunciata e mai pubblicata «edizione ampliata e completa» del volume, che avrebbe dovuto essere divulgata in altri paesi dEuropa (informazione tratta dalla lettera del 21 aprile 1988 di Grotowski a Barba). Dopodiché prende in esame altri tre “libri” (si evidenzia fin dallinizio che con questa dicitura si intende, nel caso di Grotowski, una «architettura di testi» curata dallinizio alla fine dallartista in persona – p. 134): quelledizione mai realizzata di Per un teatro povero, ma a cui lartista lavorò molto; lantologia di Testi degli anni 1965-1969 pubblicata in Polonia nel 1989; i numeri 11 e 12 di «Màscara» (dicembre 1992-gennaio 1993), curati da Edgar Ceballos. Attraverso la sua analisi, Ruffini evidenzia il particolare rapporto che legò lartista polacco alla scrittura («in un certo senso, scrivere testi è stata per Grotowski unoperazione doppiamente contro natura» - p. 135) e mostra a cosa mirasse questultimo quando parlava del messaggio che intendeva lasciare dietro di sé.
Da meno di due anni Mirella Schino ha intrapreso unoperazione di interesse mondiale: ha avviato la raccolta sistematica di quei materiali documentari, sparsi in vari scaffali, armadi e casse dislocate tra il teatro e il museo di Holstebro, che stanno confluendo negli Odin Teatret Archives. Nel suo saggio (La busta 23. Serie Grotowski, Odin Teatret Archives) Schino presenta il progetto da lei gestito (e coadiuvato da Francesca Romana Rietti), ne denuncia i limiti ma ne esalta i punti di forza, fornendo così prova concreta dellutilità dellimpresa in corso. I documenti della busta 23 (Odin Teatret Archives, Fondo Barba, Serie Grotowski) coprono gli anni 1980-1990 e possono sembrare di poco interesse per la loro natura eminentemente burocratica. Eppure a unanalisi approfondita, intessuta di riferimenti ad altri faldoni del fondo, appaiono elementi prima non visti che aprono la strada a conoscenze inaspettate. Attraverso una precisa classificazione dei documenti (secondo un «ordine cronologico inverso» – p. 178), lanalisi minuziosa della composizione dei medesimi e la citazione diretta di ampi stralci, si mettono in evidenza le infinite incertezze di un allievo (Barba) verso il suo maestro (Grotowski) per gli anni in questione, laddove ci si aspetterebbe di incontrare «la sicurezza di una lunga conoscenza» (p. 175); si ripercorre la relazione tra i due artisti e tra i teatri da loro gestiti, visto che questa «non è stata ancora indagata sufficientemente a fondo» (p. 176); si mette in luce il difficile rapporto tra lartista polacco e il regime dittatoriale della sua nazione (1981-1983), che lo ha portato alla necessità di un auto-esilio; infine si riporta parte della lettera che Zbigniew Osínski ha scritto a Eugenio Barba il 25 luglio 2007. Osínski informa lamico del fortuito ritrovamento di otto scatoloni che il Maestro aveva lasciato a suo fratello nel 1982 e che da allora sono rimasti nel fienile della casa di questultimo. In questo modo si sono salvati molti documenti manoscritti, che potranno aprire la strada a nuove conoscenze e illuminare punti oscuri ancora esistenti intorno alla figura di Grotowski, ma anche, di riflesso, a quella di Barba. I documenti sono stati destinati alla Sezione Manoscritti della Biblioteca Ossolineum di Wrocław.
Riprova che lo storico del teatro non deve mai stancarsi di rivolgere la sua attenzione a documenti che a prima vista hanno poco a che spartire con la sua ricerca è il saggio di Carla di Donato (Un provino per Cieślak (Parigi, 1976). Nota sul personaggio di Gurdjeff per il film di Brook «Incontri con uomini straordinari»), introdotto da due brevi scritti. Il primo è di Ruffini, in cui si ribadisce che «anche di piccoli nodi come un provino andato a vuoto si nutre quella che Eugenio Barba chiama “la storia sotterranea del teatro”» (p. 162); il secondo, della stessa autrice, introduce brevemente la figura di Gurdjeff (1877-1949) e del suo insegnamento spirituale. Il saggio mette in luce un episodio precedentemente del tutto sconosciuto. Di Donato ha completato il suo percorso di dottorato con una tesi sulla figura e lopera di Alexandre de Salzmann (1874-1934). In occasione di un intervista concessale da Peter Brook (1 luglio 2006), questultimo, per la prima volta dopo trentanni, le ha raccontato del provino cui sottopose Ryszard Cieślak (marzo-aprile 1976) per interpretare il ruolo di Gurdjeff adulto nel film in questione; del motivo per cui il performer del Principe costante venne rifiutato in favore di Dragan Maksimovic; e infine del perché invece fu scelto per il Mahābhārata (1985).
Lintervento di Jana Pilátová – Il maestro. Stage al Teatr-Laboratorium (febbraio-luglio 1968) – (apparso già su «Pamietnik Teatralny», n. 1-2, 197-198, 2001, pp. 14-49 e tradotto per loccasione da Marina Fabbri, come tutti gli altri documenti originariamente scritti in polacco) funge da ulteriore, prezioso e fondamentale arricchimento documentario. Tanto che nella sua Nota introduttiva Eugenio Barba evidenzia come il saggio proponga «materiali quasi unici» e sottolinea che essi «sono le sole testimonianze scritte sul suo [di Grotowski] comportamento in sala nel periodo immediatamente precedente ad Apocalypsis cum figuris» (p. 81). Pilátová (al tempo studentessa di psicologia) racconta lesperienza dello stage frequentato insieme con altri studenti a Wrocław, tra il 1967 e il 1968, a partire dai quattro quaderni e dalle molte pagine di appunti da lei scritti al tempo durante gli incontri e pubblicati adesso per la prima volta. Si evidenzia, così, il modus operandi del Maestro, alieno a qualsivoglia sistematizzazione (uno dei motivi per cui, come sostiene Ruffini, Grotowski fu sempre idiosincratico nei confronti della scrittura) in favore di un lavoro fisiologico con ogni singolo performer. In più si rivela «una parte del lavoro di Grotowski quasi sconosciuta, nonostante i suoi coevi seminari a Holstebro» (Nota di Barba, p. 84).
Arricchiscono il già nutrito Dossier gli interventi di Ludwik Flaszen, Ferdinando Taviani e Eugenio Barba. Nei primi due scritti, Flaszen riflette sullopera dellartista polacco e sulle relazioni che essa ha stabilito con la storia e la cultura del suo tempo. Di particolare interesse Miracle à Shiraz (scritto nel 1970 e di prossima pubblicazione nel volume Grotowsky and Company per la Icarus Publishing Enterprise) che concentra la sua attenzione sul “periodo di passaggio” dellartista coincidente con labbandono del “teatro come spettacolo” in favore dellutilizzo delle tecniche teatrali nella direzione di una ricerca psicanalitica del sé. Seguono due recensioni del 1959 (Un Čechov moderno – e quel che ne è venuto fuori; Un fiasco o il bisogno di gioia) in cui il lavoro registico di Grotowski (con cui ancora Flaszen non stava lavorando) viene stroncato, ma, al contempo, si riconosce e si esalta il tentativo di rendere il teatro unarte creatrice autonoma. Lo scambio epistolare Taviani-Barba (25 aprile 2009-21 luglio 2009) ci permette di partecipare a una conversazione privata, avvenuta in occasione dei festeggiamenti per il 50° anniversario del Teatr-Laboratorium (Holstebro, 20-21 febbraio 2009) attraverso le riflessioni personali scritte nelle due missive. Anche in questo caso emergono una serie di interrogativi, tuttora inappagati, in relazione alla figura di Grotowski: «nel corso della vita, ognuno di noi cambia. Ma quando una persona che immaginiamo di conoscere a fondo muta in modo radicale, è naturale che sorgano delle domande» (p. 128).
«Teatro e Storia» non esaurisce il suo impegno esegetico con lapprofondito e nutrito dossier monografico, i cui interventi sono affidati in genere ai maggiori esperti dellargomento. Anzi. Attorno a quello che rimane comunque il nucleo centrale si annodano altri saggi di giovani studiosi, che ampliano lorizzonte di veduta, e offrono ulteriori e interessanti approfondimenti, seppur frammentati tra di loro in quanto a contenuti (Gabriele Vacis, Elisa Ragni, Ashish Mohan Khokar, Luigia Calcaterra, Stefano Geraci, Samantha Marenzi, Emmanuil Kotljar, Adelina Suber, Stefania Arancio, Emanuela Bauco). Il tutto è poi arricchito dalla ormai tradizionale presenza di «testimonianze di vita del teatro, quasi sempre in stile epistolare» (p. 8), da tempo vera cifra stilistica della rivista (Pippo Delbono, Annet Henneman, Cristina Wistari Formaggia, Gigi Bertoni). Si dà voce, così, a quella «minoranza di ricerca» che non può e non deve mai essere trascurata o, peggio, ignorata (anche se in certi casi, come in quello di Pippo Delbono non si può certo parlare di “minoranza di ricerca”, anche se capiamo il senso cui si allude!). Come si sottolinea nelleditoriale, lintento perseguito è quello di unimpostazione di ampie vedute, tutta novecentesca, che tenga conto degli approcci di storia, antropologia, tecnica ed estetica. Lincontro tra le tre realtà (accademia – giovani studiosi – “esterni”) fa scaturire un dialogo democratico e perciò stesso costruttivo, ricco e interessante. Quello che caratterizza lambiente di «Teatro e Storia» è, infatti, «la consapevolezza che non solo il teatro, ma anche lo studio del teatro possono essere portatori delle più strane rivolte. O eresie, come di direbbe Claudio [Meldolesi]» (p. 9).
Esergo e sigillo del volume, i ricordi di Claudio Meldolesi (1942-2009) e Tony DUrso (1947-2009). Meldolesi è ricordato con alcuni suoi Pensieri posti a inizio di volume: due lettere indirizzate a Barba; due frammenti dalle bozze di La terza via di Leo. Gli ultimi ventanni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna, ultimo libro da lui curato; la trascrizione letterale della risposta data in occasione del suo ultimo intervento alla Soffitta di Bologna (13 maggio 2009). DUrso è commemorato con la pubblicazione di una foto molto intensa che lo vede con Iben Nagel Rasmussen in Salento nel 1974, durante la lavorazione del film Vestita di bianco di Torgeir Wethal.
di Diego Passera
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