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Theatre Research International, vol. 35, n. 1, march 2010
in association with the International Federation for Theatre Research

vol. 35, n. 1, march 2010, pp. 1-95, £51
ISSN 0307-8833

Il 2010 si apre con l’atteso e annunciato passaggio del testimone dalle mani di Freddie Rokem a quelle di Elain Aston (Senior Editor), coadiuvata da Charlotte Canning (Associate Editor). Ogni cambiamento è foriero di curiosità e attese, particolarmente intense in questo caso, sia per l’ottimo lavoro svolto durante il “triennio Rokemiano”, sia per il ruolo che una rivista come «Theatre Research International» svolge nell’ambito della ricerca teatrale.

 

Aston, consapevole del rischio dell’impresa, apre l’editoriale senza indugi, con piglio deciso e, riconosciuto il peso della sua eredità, espone le linee guida, lascito del precedente mandato, cui si manterrà fedele: ampliare la diffusione in aree del mondo non anglofone; promuovere la redazione di dossier che analizzano a fondo nuove performance in lingue o aree del globo altrimenti non facilmente accessibili al lettore; privilegiare le relazioni su innovativi progetti di ricerca e/o programmi portati avanti da un’equipe. Questo lavoro intende elevare TRI (distribuito in cartaceo e in formato elettronico) a prodotto globale – non globalizzato! – e liberarlo dalla longa manus dell’accademia inglese.  Il punto fermo rimane quello di non sclerotizzarsi in una visione monolitica atta a favorire un solo approccio critico o un’unica metodologia di ricerca, per abbracciare variegate linee di tendenza. Il rischio è quello, inevitabile, della frammentazione, soppesato, comunque, dall’ampiezza dell’orizzonte di riferimento.

 

Prima concretizzazione della volontà indicata nell’editoriale appaiono i due articoli di Hyunjung Lee, che prende in esame una performance coreana, e di Ravi Chaturvedi, che dedica spazio al teatro indiano.

 

Lee (Performing Korean-ness on the Global Stage: Ho-Jin Yoon’s Musical The Last Empress) analizza la messinscena, ricordata nel titolo, ispirata alla vita e all’operato dell’imperatrice Myoungsung (1851-95). Quest’ultima, figura centrale nella politica coreana, è stata la maggiore promotrice della modernizzazione della nazione. Significativo, quindi, l’argomento scelto per uno spettacolo commissionato a metà degli anni 1990, coincidenti con la ormai avviata globalizzazione della Corea. Ho-Jin Yoon, il regista, crea uno spettacolo competitivo con quelli di Broadway, che infatti è stato replicato più volte anche in Occidente (sulle scene di New York, Los Angeles e Londra). Lee evidenzia come in The Last Empress si possano mettere in luce una serie di interazioni tra gli elementi tradizionali coreani (nazionalistici) e quelli pervenuti da oltre confine, e più precisamente dall’occidente. Tale incontro, però, avviene in seno a un processo di alienazione, in cui i recuperi allogeni vengono snaturati e resi veri e propri feticci: significanti privi di senso, exempla negativi al servizio della glorificazione nazionale coreana.

 

Di matrice più generale è l’approccio al teatro indiano di Chaturvedi (Theatre Research and Publication in India an Overview of the Post-independence Period). Il saggio parte dalla constatazione che il mondo della ricerca accademica in India è di costituzione molto recente, e si trova in uno stato di difficoltà effettivo nel rivolgersi a una tradizione teatrale e multiculturale tra le più antiche del pianeta. Dovendo comunque tracciare una suddivisione cronologica (forse un po’ semplicistica, come tutte le periodizzazioni, ma, comunque  funzionale al problema) Chaturvedi evidenzia che le “ere” da considerare sono tre: quella del teatro tradizionale sanscrito; il periodo del colonialismo; l’epoca successiva all’indipendenza (1947). Quest’ultima stagione , su cui l’autore relaziona, è da lui definita «a period of redefining cultural identity in the new sociopolitical environment» (p. 66). Il breve saggio è diviso in due parti: la prima (Part one: period of transition) analizza l’arco di tempo 1950-1990, in cui gli attivisti e i drammaturghi collaborarono alla creazione di un nuovo teatro che esprimesse l’identità indiana e sintetizzasse la modernità con la tradizione; la seconda (Part two: the new wave) mette in luce le ricerche e le pubblicazioni teatrali successive al 2000, che si sono occupate del concetto di “modernità”, sia nella teoria che nella pratica, e che hanno iniziato a occuparsi delle questioni relative a forma, stile, spazio e performatività.

 

Gli altri quattro interventi indagano performance molto diverse tra loro, ma tutte accomunate da un forte desiderio di scioccare l'uditorio, pur con ineguali finalità. Come evidenzia Elaine Aston nell'editoriale, in ciascun caso l'autore «is moved by the experience of these particular performances to think variously about ideas of witnessing, of productive modes of intense intimacy, of non-violent attachments to 'others', or of ethical catharsis» (p.2).

 

Nel gennaio 1999 in Belgio Maggy Strobbe e il suo compagno, Luc de Winne, uccisero i loro due figli in una stanza d’albergo. Aalst (2005) di Pol Heyvaert trae ispirazione da quel fatto di cronaca nera ed è stato composto a partire dai registri del processo contro i due omicidi. Il dramma, nella traduzione inglese di Duncan McLean, e la messinscena dello stesso al National Theatre of Scotland (2008) sono al centro dell’analisi di Helena Grehan (Aalst: Acts of Evil, Ambivalence and Responsibility). L’autrice indaga il ruolo degli spettatori quali testimoni di un processo in atto (lo spettacolo). È evidente che, come ricorda la studiosa, l’utilizzo del termine ‘testimone’ è tutt’altro che banale; nel caso specifico, però, è necessario ricorrervi per la natura stessa della performance. Essendo Aalst scaturito dal desiderio di “fare qualcosa” (sul modello offerto dall’opera di Primo Levi), l’intento di Grehan è quello di indagare il modo in cui la messinscena coinvolge lo spettatore come «witness in a play of seduction and estrangement during which the concept of ethical responsibility and judgment are destabilized and radically challenged» (p. 4).

 

In un mondo dominato dalla violenza, in cui gli individui sono quotidianamente maltrattati fisicamente e psicologicamente c’è la necessità di intervenire per sedare tale brutalità. Che ruolo può svolgere in questa reprimenda uno studioso di teatro o un artista? Fintan Walsh (Big Love: Relationality, Ethics and the Art of Letting Go) ricusa l’affermazione del fascino esercitato dal «representational prominence of violence», letto anche come espressione di un discorso politico di costruzione del mondo (Patrick Anderson e Jisha Menon, Violence Performed…, 2009). Prendendo come esempio la messinscena di Big Love di Charles Mee per la regia di Selina Cartmell (2008), si dimostra il modo in cui una performance possa farsi exemplum di un'etica della non violenza dei rapporti umani: l’arte del «letting go» espressa nel titolo. Come si evidenzia nella presentazione al saggio, questa arte è pensata nel senso di un atto performativo che allenta «the point of attachment between the subject and symbolic law, while paving the way for relatively non-aggressive conditions of being to emerge» (p. 17).

 

Il post-moderno ci ha abituato a forme d’arte scioccanti (e discutibili). Sicuramente Kira O’Reilly è uno di quei “fenomeni” che ha fatto molto parlare di sé. Amata e odiata, è comunque una performer che esiste e che per questo non può essere ignorata, che lo si voglia o no. Rachel Zerihan (Revisiting Catharsis in Contemporary Live Art Practice: Kira O’Reilly’s Evocative Skin Works) si riferisce a due lavori dell’“artista” britannica, cui ha avuto modo di assistere: The Mother del 2003 e Untitled Action: NRLA, The Arches del 2005. Riferendosi al concetto di le vréel formulato da Julia Kristeva e all’isteria, topos della live art reillyana, l’autrice sostiene (ma sono sue supposizioni!) che nelle due performance possono essere rintracciate problematiche ma significative riflessioni sull’essenza della catarsi in epoca contemporanea. Concentrando l’attenzione soltanto sull’opera di una singola artista, il discorso non può intendersi esaustivo di un fenomeno molto più complesso, evidentemente, e anche Zerihan ne è consapevole.

 

Rob Baum (The Mark, the Gestus, and the moment of Witnessing) tocca alcuni tra i problemi ancestrali del Teatro: il delicato rapporto tra Realtà e Finzione e il ruolo che all'interno di questa diatriba occupa il corpo dell'attore. Nel caso specifico il problema è tutt'altro che banale. L'oggetto dell'analisi è lo spettacolo sulla Shoa (in forma di cabaret) che uno studente di Melbourne ha preparato come prova integrativa della sua tesi di laurea, il cui unico attore in scena è un «living testimony», un sopravvissuto all'olocausto (tutti i nomi sono fittizi e il titolo dello spettacolo non è citato, per rispetto della privacy). L’apoteosi è il momento in cui Laszlo (questo il nome indicato per l'“attore”) alza il braccio e lascia intravedere il Ka-Tzetnick (il tatuaggio numerico). Questo gesto, pur non abbattendo la quarta parete, poiché lo spettacolo è costruito come classicamente mimetico, disgrega per un attimo i confini della finzione e trasforma il pubblico in testimone e il teatro in luogo della memoria. In questo senso nel saggio si indaga: la funzione della memoria traumatica e il modo in cui essa si manifesta nel corpo del performer-sopravvissuto; la messinscena del trauma e la sua modalità narrativa; la differenza tra la Storia e la sua rappresentazione.

 

Un numero denso e intenso quello di TRI di marzo 2010, in cui si affrontano temi delicati e complessi. Gli argomenti dei saggi non si rapportano l’uno con l’altro secondo un criterio di uniformità monografica e, anzi, si frammentano in un discorso disomogeneo. Eppure, nel complesso, questo non appare una debolezza ma un punto di forza. Il tentativo di dare testimonianza della realtà del mondo attraversa necessariamente territori variegati: gli sforzi del comitato redazionale sono orientati a far sì che «TRI continues in its insightful, surprising, even difficult ways, to map different ‘places’, geographically, culturally, politically, and critically, that are important to the field of theatre and performance scholarship» (p. 3).

 

 

di Diego Passera


La copertina

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