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Atti e sipari, n. 6, aprile 2010


n.6, aprile 2010, 5 euro
ISSN 1973-5472

In questo numero Concetta D’Angeli e Guido Paduano si interrogano sul significato e sulle diverse forme e contenuti di quello che viene definito teatro ‘politico’. Distinguono diversi tipi e modalità: quello di propaganda fatto dai comici telepredicatori, con lo scopo immediato di dare potere alla parola e non  all’azione scenica; quello didattico che punta al potenziamento della coscienza critica del pubblico. Proprio la politica e il teatro saranno i temi trattati, indagati e sviscerati in interviste e considerazioni.

Nella sezione La parola agli artisti, Concetta D’Angeli intervista Carlo Cecchi sulle difficoltà incontrate nel mettere in scena Il Vicario di Rolf Hochhuth, pubblicato in Germania nel 1963 e in Italia l’anno successivo. Si trattava di un testo ‘scomodo’ per gli anni in cui si voleva rappresentare, soprattutto per le vicende storiche italiane.  In quegli anni l’Italia era un paese profondamente cattolico, il governo era presieduto da Aldo Moro e sul soglio pontificio sedeva Paolo VI, già collaboratore di Pio XII durante la guerra e suo amministratore anche nel periodo post-bellico. Fu proprio in Vaticano che nacquero le prime avversioni per questo testo.  In esso l’autore accusa il silenzio e l’ipocrisia di Pio XII sulla Shoah e sulle scelte politiche di Hitler. Pone come alter ego del Papa la figura del prete Riccardo Fontana (personaggio fittizio, ispirato al frate francescano polacco Maximilian Kolbe morto ad Auschwitz) che diviene il simbolo della libertà di scelta. Cecchi, nella lunga e interessante intervista, racconta l’idea della messinscena e le varie scelte drammaturgiche e di come insieme a Claudio Meldolesi, Claudio e Gian Maria Volontè, Giacomo Piperno − in un locale romano, utilizzato durante la guerra d’Algeria da tipografia per gli esuli – cercarono di portare in scena lo spettacolo. Una volta in scena, lo spettacolo fu interrotto dalla polizia per la mancanza di un certificato di agibilità del locale. Cecchi precisa che per quello spazio non occorreva un tale permesso, perché il numero dei posti era inferiore a cento e quindi decisero di metterlo in scena clandestinamente. Questa vicenda ebbe un riscontro enorme, i giornali di tutto il mondo ne parlarono e le comunità ebraiche si mobilitarono, mentre il governo italiano stava quasi per cadere. Cecchi confessa che oggi metterebbe in scena Il concilio d’amore, tragedia celeste di Oskar Panizza, aspra satira contro ‘lo zar del Vaticano’.

Nella sezione Sotto la lente Ascanio Celestini e Simone Soriani analizzano il rapporto tra politica e teatro partendo dalla storia greca fino ad arrivare ai giorni nostri. I due arrivano alla conclusione che spesso il teatro politico tende a sovrapporsi a quello civile, perché riesce a mostrare i conflitti della società e creare maggiore consapevolezza negli spettatori. E insistono col sottolineare che il miglior pubblico per un teatro politico è quello popolare, mentre il miglior posto dove ‘fare’ teatro dovrebbe essere una fabbrica, una chiesa sconsacrata, un luogo non istituzionalmente riconosciuto. Si tratta insomma di quei contesti entro i quali si realizza un messaggio antagonista rispetto agli interessi dell’estabilishment, come accade nelle diverse modalità espressive di Marco Paolini, Pippo Delbono, Marco Baliani, Marco Marinelli, Stefano Massini e tanti altri contemporanei. A questa riflessione seguono tre interviste. Nella prima Ascanio Celestini riflette con  Dario Fo sul concetto di memoria, sulla tecnica del rovesciamento, sulla cultura popolare del canto, sul linguaggio della maschera; poi con Marco Paolini discute sulla responsabilità di fare teatro civile. In ultimo con Moni Ovadia si sofferma sul concetto di memoria e  memorie a teatro, del cristianesimo  e dell’ebraismo, della sua formazione musicale, e del lavoro ‘fuori scena’ dell’attore. 

Nella sezione Scene dal territorio Consuelo Scopelliti interroga Giovanni Guerrieri sull’importanza di una ‘ricerca al confine’. Quest’ultimo testimonia la sua esperienza con il Teatro Sant’Andrea di Pisa, con la sua compagnia dei Sacchi di sabbia, con i quali ha portato in scena con la collaborazione di Cinema Teatro Lux, Teatri di confine 3. Nuove scene, nuovi pubblici. Anche in questo caso, come nelle interviste precedenti, l’edificio teatrale è un posto di confine, non quello istituzionalmente riconosciuto. Le storie rappresentate sono racconti ‘emotivi’ di vita.

Nella sezione In Italia e nel mondo Mariacristina Bertacca delinea il percorso che ha portato il regista Marco Martinelli a concepire lo spettacolo Arrevuoto: Scampia-Napoli. Il progetto nasce nel 2005 da un’idea di Goffredo Fofi per realizzarsi nel 2006 con Roberta Carlotto, direttore dello stabile partenopeo. L’obiettivo principale era quello di ritrovare un legame tra arte e società, coinvolgendo due scuole di Scampia, un liceo del centro storico di Napoli e un gruppo di ragazzini romeni. Sono stati riscritti tre classici: La Pace di Aristofane diventato Pace!, Ubu re di Alfred Jarry  poi Ubu sotto tiro e alcune parti de L’avaro, Le intellettuali, La scuola delle mogli e Il medico per forza di Molière per L’immaginario malato. Si tratta di scelte oculate, tutte calate nelle reali situazioni  vissute dai novanta ragazzi coinvolti. Un teatro ‘necessario’ per chi lo fa e per chi lo vede e soprattutto portatore di una grande verità messa in bocca ad Ermes in Pace! ‹‹Nuie simme fantasmi. Simme ‘na massa ‘e guarrattelle cecate, sempre a disposizione dei capricci di un padrone››. Lo sforzo di Martinelli è andato oltre: oggi infatti l’Auditorium di Scampia crea figure professionali attraverso laboratori e corsi seminariali tenuti da artisti italiani quali Sandro Lombardi, Marco Paolini, Danio Manfredini, Armando Punzo. Un teatro portatore di speranza, come afferma Martinelli, capace di aver portato - parafrasando Brecht - una consapevolezza maggiore nei confronti della  vita. Nella stessa sezione si riporta un’intervista - curata da Anna Contini -  a Jon Fosse, autore norvegese che dal 1992 è approdato al teatro. L’autore-drammaturgo spiega che il suo teatro è arte dell’ascolto, perché per lui scrivere significa ascoltare. I suoi testi sono quasi tutti tragicomici, con personaggi senza nomi, in versi sciolti con punteggiature quasi assente. Risente molto dell’influsso di Beckett, Čechov, Ibsen e Lars Norén. Il suo teatro è un misto di sofferenza e redenzione, tra i suoi successi: Qualcuno arriverà, E non ci separeremo mai, Il nome, Variazioni di morte, Inverno. Nella stessa sezione Annastella Giannelli intervista il regista Antonio Calenda per lo spettacolo Vita di Galileo di Brecht. Il regista nell’allestimento s’interroga sulla libertà delle singole azioni utilizzando le parole di un autore classico votato all’impegno civile. Per questo decide di mettere in scena le tappe fondamentali della vita dello scienziato, permettendo allo spettatore di viaggiare tra una scoperta e l’altra.

Nella sezione Conversando Francesco Sacco intervista l’attore e regista Daniele Timpano. Si legge della sua esperienza attoriale in Dux in scatola e di Risorgimento Pop al fianco di Gaetano Ventriglia. Un teatro il suo scritto per la fisicità, basato su gesti stilizzati, movenze clownesche. Mariolina Bonsi intervista i “Babilonia Teatri”, una giovane compagnia veronese che mette in scena un teatro rock, pop e punk. Si tratta di un teatro che prende spunto dalle contraddizioni della nostra realtà e dall’urgenza di parlare. Tra gli spettacoli allestiti: Panopticon Frankenstain che parla di carcere e droga e Pornobby tutto incentrato sul legame tra pornografia e media. L’ultima intervista è di Mariagrazia Bertino al regista e autore teatrale Mimmo Sorrentino. L’autore illustra il percorso che l’ha condotto ad occuparsi di teatro ‘partecipato’ alla ricerca del vero. Tra i suoi spettacoli Quesalid, Case popolari, Fratello clandestino, Vado via.

di Assunta Petrosillo


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