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Philosophie de la scène


2010, pp. 156, euro 19,00
ISBN ISBN 978-2-84681-277-1

Questo lavoro insolito, sia per i critici e gli studiosi, sia per i teatranti, esce in un momento in cui gli impegni del teatro poco concedono a questioni e cure teoriche. Eppure l’argomento impegnativo appare subito cattivante e con la promessa di un effetto magari a lunga portata. Del resto, gli stessi autori dei contributi (professori o persone di teatro) avanzano cauti nel gioco delle ipotesi, consci del carattere in progress dei loro lavori. 

 

«Le dialogue entre théâtre et philosophie s’est beaucoup intensifié ces dernières années – osserva Denis Guénoun - La pensée du théâtre a été longtemps occupé par la réflexion sur le drame et le dramatique et la dimension scénique, considérée comme accessoire ou mineure, n’a émergé devant l’attention théorique que récemment» (p. 8). Sei saggi compongono il volume, con la sovrapposizione di problematiche e riflessioni in ambiti complementari. L’intento principale è definire l’oggetto studiato e pervenire all’individuazione della nozione di scena liberandola dalle ambiguità e inesattezze del linguaggio comune e del gergo teatrale. Inizia il Guénoun con la domanda Qu’est-ce qu’une scène? Il discorso si articola a partire da un dato considerato aprioristico, echeggiando le tesi del collega Kirkkopelto, poiché «il suffit que quelqu’un commence à jouer pour que la scène soit présente, ‘déjà là’» (p. 11). Per rispondere, considera la sua incognita in termini di espace, séquence, plateau, trattati nei corrispondenti paragrafi Un vide, Un avoir-lieu, Des planches. Riaffermata la qualità materiale della scena, Guénoun conclude immaginandola così: «Une scène serait alors un jeu de planches ajointées aux creux de l’assemblée pour que, portée par l’orchestre, y monte la présentation de ce qui arrive» (p. 24).

 

Thomas Dommange avanza tre proposizioni, o enunciati: «1. La fonction de la scène est d’exhiber des corps de nature théologique»; «2. Le problème de la scène réside dans la possibilité de faire voir de façon non-théologique cette nouvelle disposition ontologique du corps»; «3. La solution à ce problème se trouve dans la singularité des actions que l’acteur fait en scène» (p. 27). E in primo luogo, prende ad esempio l’elevazione nella messa cristiana, momento in cui storicamente, nel rito, essa «devient ce qu’elle voulait par-dessus tout ne pas être: une représentation, un spectacle» (p. 28). Infatti, nella liturgia eucaristica l’autore scorge una peculiarità che si riverbera  sulla scena moderna e vi permane: «A la fois historique et ressuscité, le corps eucharistique témoigne de l’existence, pour notre corps, d’une seconde nature par où il est sauvé» (p. 30). Quindi, «faire voir la naissance d’un corps glorieux à même notre corps c’est assujettir le destin de la scène à celui du corps qu’elle exhibe. […] Le culte catholique ne trouve pas dans l’église une scène l’incitant à montrer le corps du Christ, elle commence par convoquer un corps qui, en retour, l’oblige à transformer l’église en théâtre» (p. 31). Ne consegue che «nous avons des multiples scènes mais nous refusons de voir que les corps qui les réclament sont encore de nature théologique» (p. 31). Le argomentazioni toccano «action dramatique et action scénique» (p. 39), per cui appare la tipologia del corpo à côté (sfasato) che si definisce «corps comique». Infine, l’autore offre una formulazione provvisoria: «L’exhibition profane du corps théologique est la comédie. Ou encore: la fonction de la scène est de rendre possible une conception comique de l’existence» (p. 48). Un’affermazione di Alfred Jarry sull’essenza del personaggio, «une abstraction qui marche», è adottata da Nicolas Doutey che procede seguendo l’articolazione fra spirituale e fisico risultante dalla nozione di visione in Descartes, Heidegger e Richard Rorty (p. 52). Tenta poi la composizione dell’aspetto visuale della conoscenza con la concezione moderna dello spirito come interiorità, confluendo nel pensiero di Locke, qui accreditato a fornire la formulazione di una teoria della conoscenza. Il percorso di Doutey sfrutta acquisizioni contemporanee (dei presenti co-autori Dommange e Guénoun) ed esplora quella critica della metafisica recente che tende ad affrancarsi dal dualismo fra corpo e spirito e dal paradigma visuale della conoscenza (p. 59-61) che conduceva all’idea di scène quale «lieu d’apparition d’images». Il superamento del dualismo corpo/spirito; visibile/invisibile, comporta il superamento dell’opposizione finzione/realtà. In fondo, l’intuizione provocatoria di Jarry si precisa allora ribaltandosi: «On pourrait essayer d’entendre que le fait de marcher n’est pas un accident pour une abstraction, un état exceptionnel, mais que c’est sa condition, son ‘lieu naturel’: ce que la scène de théâtre présente, la marche visible de la pensée» (p. 68-69).

 

Le intersezioni fra le dimensioni visive e sonore nella scena sono indagate da Schirin Nowrousian, con spunti tratti dal Kirkkopelto (la cui opera più recente, Le Théâtre de l’expérience, Paris, 2008, è riferimento per tutti gli interlocutori) e da Deleuze e Guattari. L’autrice abbozza una tesi sul campo «scénophonique» del teatro e della relativa «scénophonie», convocando l’aspetto sonoro e musicale oltre che visivo, della fenomenologia inerente. È fecondo il riferimento inedito all’opera di Deleuze e Guattari, Mille plateaux (1980) in cui i due autori indicano l’azione significativa e non soltanto metaforica di un uccello della foresta australiana che mostra spontanea coscienza artistica nell’organizzare il suo habitat. Ma la complicazione sorge allorché Nowrousian sottolinea il termine heccéité, neologismo che sarebbe ripreso dalla coppia francese da Duns Scoto (p. 101). Lo sforzo per definirlo (e comprenderlo), a partire dall’uso dei due autori (in cui appare come agencement (sistemazione, strutturazione) cresce via via, per confluire nell’idea di scénophonie, ancora utilizzando le risorse (ermeticamente formulate?) di Mille plateaux e affermando: «La scénophonie, cela est clair, vient vers nous dans un raccordement avec le concept de scène (et, avons-nous envie de dire, de scénovision). […] La scénophonie s’articule dans ce champ-là, sur ce terrain qui est le sien» (pp. 104-05). Al suo esordio, Esa Kirkkopelto considera la «crisi del dramma» (da Szondi a Lehmann), ma non ritiene la scena (e la messa in scena) problema residuo naturale di tale crisi; anzi, «tout autant que le drame, la scène doit subir sa décontruction» (p. 116). In prospettiva pone un obiettivo, dopo avere riconosciuto: «À supposer que le théâtre, l’expérience, le monde et l’action soient ainsi liés les uns aux autres, nous pouvons considérer chacun d’entre eux comme un médium par rapport aux autres» (p. 122), poiché «le mode d’être de la scène est toujours déjà compris de manière trascendantale» (p. 123). Attraversando le concezioni platonica (in Repubblica) e aristotelica (in Poetica) del teatro, fa il bilancio delle latenze e delle responsabilità attualmente aperte. Dopo tanti ardui passaggi mediante sofisticata strumentazione concettuale, il programma futuro (o almeno l’atteggiamento propugnato) rasenta la tautologia e resta vago: «Le postdramatique implique-t-il une rupture avec la scène, un saut au-delà de celle-ci, ou bien signifie-t-il que nous devrions concevoir la scène de manière différente, inventer des nouvelles scènes?» (p. 142). L’intervento di Michel Deguy, Poétique de la scène, è una prosecuzione del dibattito aperto dal Kirkkopelto, in cui rileva l’importanza dell’asserzione sulla trascendenza che guida quella ricerca originale. Segue la revisione del concetto di création, parola che «s’emploie pour cette avancée phénoménologique au paraître, que la scène montre, fait voir, en l’isolant » (p. 146). Fra tanti concetti e procedure, insoliti per il teatrologo e per il critico, nonché per l’attore, entrano ancora in gioco numerose sollecitazioni da citazioni e rinvii, relativi a una bibliografia aggiornata e preziosa, pressoché sconosciuta anche agli specialisti.      

 

 

di Gianni Poli


la copertina

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