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Guido Molinari, Eugen d’Albert (1864 – 1932). La vita e le opere


Sestri Levante, Gammarò editore, 2009, pp. 624, 35 euro
ISBN 88950 1065-5

Ci voleva un musicologo estraneo all’establishment (anche la musicologia ha il suo) perché in Italia si pubblicasse un ampio libro su Eugen d’Albert, inteso come compositore a tutto tondo e non solo mago della tastiera. Sotto questo profilo, l’unico contributo scritto nel nostro idioma risaliva a centoquindici anni fa: una lunga disamina – che il volume riporta in appendice – della neonata opera Ghismonda (1895), pubblicata sulla «Rivista Italiana di Musicologia» a firma di Luigi Torchi (tra l’altro, il traduttore di Opera e dramma di Wagner e del Bello musicale di Hanslick). Considerato che nel cammino operistico di d’Albert Ghismonda è il secondo titolo di un catalogo destinato a comprendere una ventina di lavori, appare chiaro come in Italia un tentativo di storicizzare il suo teatro musicale non sia mai stato tentato: né il discorso cambierebbe spostando l’attenzione sul catalogo cameristico-sinfonico. E siccome pure in Germania questo compositore – sostanzialmente apolide, ma tedesco quanto a parabola artistica – è ricordato poco e male, vien fatto di pensare che d’Albert abbia patito lo stesso destino che, tra i musicisti a cavallo tra il periodo classico e quello romantico, spettò a Louis Spohr: il fatto di essere anche e soprattutto un grandissimo concertista (d’Albert del pianoforte, Spohr del violino) ha fatto passare in sott’ordine i meriti compositivi.

 

Tuttavia, suggerisce Guido Molinari, autore di questo volume ponderoso e appassionato, se la mancata programmazione di d’Albert nei nostri cartelloni è da ricercare nella pigrizia mentale (se non nell’ignoranza) di molti “addetti ai lavori”, l’assenza di una bussola critico-esegetica ha radici più profonde. Innanzi tutto, la natura borderline: d’Albert nacque in Scozia da famiglia tedesca con avi italiani; intraprese gli studi musicali prima a Londra, poi in Austria e Germania; finì con l’assumere la cittadinanza svizzera (ma sotto il profilo del mercato musicale, nota Molinari, fu un errore non prendere un passaporto tedesco); morì a Riga. In secondo luogo a penalizzarlo provvide l’eclettismo, che sottraendo la sua produzione teatrale a qualsivoglia denominatore comune (alternò tragedie a tinte forti e piccole opere da camera, drammi simbolisti e commedie satiriche), gli conferì una patente di superficialità del tutto indebita: la fiducia nel teatro in se stesso, senza bisogno di una griglia estetica in cui preventivamente riconoscersi, rappresenta già una presa di posizione, e tutt’altro che qualunquista.

 

Da ultimo, due contingenze storiche contribuirono allo scemare della sua fortuna post mortem. D’Albert muore nel marzo 1932, dieci mesi prima che Hitler venga nominato cancelliere. Sebbene non fosse ebreo – dunque mancassero motivi per parlare di “musica degenerata”, come avvenne per altri più sfortunati colleghi – la sua natura di apolide errante lo portò a subire il fascino di soggetti ebraici, da Kain (la storia di Abele e Caino) a Die toten Augen (ambientato in Palestina nel giorno della Domenica delle Palme) a Der Golem (nella Praga di Rodolfo II e dei rabbini alchimisti). Era abbastanza perché la sua produzione fosse accantonata. Nel dopoguerra invece un altro tipo di dittatura, questa volta squisitamente intellettuale, avrebbe dato il colpo di spugna al teatro di d’Albert come a quello di tanti altri autori della generazione post-romantica: negli anni di Darmstadt e della critica adorniana sembrava non esserci più posto, eterni classici esclusi, per una musica estranea alla corrente dodecafonica.

 

Alla lucidità dell’analisi storica il libro affianca la minuzia dell’analisi musicale. Per motivi di spazio Molinari rinuncia a sezionare da cima a fondo le opere teatrali di d’Albert (i riassunti, invece, sono dettagliatissimi), optando per una disamina “a settori” che si rivela di utile sistematicità e solo all’apparenza frammentaria: dopo aver dato conto dei caratteri fondamentali di ciascuna opera si passa a brevi capitoli dedicati alle caratteristiche musicali particolari, dall’indagine accordale a quella intervallare, dalle principali arie ai pezzi d’insieme, dai brani corali alla struttura dei finali d’atto. Infine, pure la parte biografica è assai curata, come si conviene a un personaggio che, almeno in veste di pianista, conobbe gli allori del divo ed ebbe un’esistenza nomade e sentimentalmente avventurosa (un’apposita appendice, ricca di stralci epistolari ma senza tentazioni di gossip, è dedicata ai rapporti con le sei mogli e altre donne importanti della sua vita).

 

In chiusura di volume, una discografia dà conto di quanta poca musica di quest’autore sia stata incisa (anche se ci resta una registrazione in cui d’Albert suona alcune sue musiche che, per il discologo, è un reperto preziosissimo): quella strumentale è davvero poca, ma pure sul piano operistico poter contare sull’incisione di quattro opere su venti è un magro bottino. In particolare è grave l’assenza di un lavoro fondamentale come Der Golem: ma chissà che la recente ripresa a Bonn non porti a un cd, o un dvd, dello spettacolo. Di Tiefland, invece, sono disponibili cinque incisioni. Non c’è da stupirsene: è l’unica opera di d’Albert che, dalla sua “prima” a oggi, ha continuato a godere di fortuna esecutiva nei paesi tedeschi, sebbene Molinari la definisca né la più bella né la più amata dal suo autore. E anche in Italia è poco conosciuta, ma, almeno, rapportabile al terreno del “sentito dire”, dato che rappresenta uno dei rarissimi casi di verismo extraitaliano e – sia pure solo ad Atene – fu cantata dalla Callas.

 

Le oltre seicento pagine scorrono agevolmente, anche perché si resta volentieri in compagnia di questo coetaneo di Strauss e allievo di Liszt che ebbe con il teatro musicale un approccio non dissimile da quello che Dino Risi avrebbe avuto con il cinema: ora un lavoro impegnativo ora uno più facile e commerciale, ora un dramma ora (forse più volentieri) una commedia. In ogni caso, una pubblicazione che riempie un vuoto nel nostro mercato editoriale. E offre il destro per una recrudescenza di orgoglio patrio, perché ci fa scoprire che tra gli avi italiani di d’Albert ci fu Leon Battista Alberti.

Paolo Patrizi


copertina

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