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Duellanti, anno IX, n. 60, marzo 2010


n.60, anno IX, pp.122, marzo 2010
ISSN 1724-3580

 

La bella (come d'abitudine) copertina del numero 60 di «Duellanti» è dedicata all'ultimo capolavoro di Clint Eastwood, Invictus – L'invincibile. È un'immagine, quella della stretta di mano tra Morgan Freeman (Nelson Mandela) e Matt Damon (François Pienaar), che da sola racchiude l'essenza del film: la necessità di riconciliazione. È proprio questa che Marco Toscano, nella sua analisi del film, individua come esito del cinema dell'ultimo Eastwood, logica conseguenza di uno sforzo di conoscenza dell'altro iniziato col dittico di Iwo Jima. Se Gran Torino era un invito all'apertura nei confronti dello straniero e un'inappellabile rinuncia alla ritorsione privata, Invictus, scrive Toscano, “è il passo ulteriore, la trasposizione sul piano pubblico di una risoluzione individuale”. È un film che, tracimando oltre i confini del biopic tradizionale, si inserisce coerentemente nella filmografia del cineasta americano (basti notare la dolce imperturbabilità del personaggio, o il suo rapporto con la figlia), benché il lavoro sia stato quasi commissionato. Commissionato, si potrebbe dire, da Morgan Freeman, che nella lunga intervista qui presente confessa la sua fascinazione per Madiba e per una storia, quella degli Springbox, che “sintetizzava tutta l'esistenza di un uomo straordinario in un momento particolare”.

 

Emergono dall'intervista interessanti particolari e aneddoti sul modus operandi, severo ed amichevole allo stesso tempo, di Eastwood. È proprio nella classica rigorosità del suo stile, scrive Massimo Rota, che risiede la bellezza del suo cinema. Eastwood è, in ultima analisi, l'unico erede credibile del cinema di John Ford: solidità, mistica del sacrificio, immediatezza comunicativa per descrivere personaggi complessi, oltre a un metalinguaggio (forse involontario) che apre a riflessioni sui modi e sul significato del racconto. “Il cinema di Eastwood” scrive Rota “è sublime proprio perché obsoleto, storicamente esaurito e perciò irriproducibile, conservatore nel suo rivolgersi al passato come gesto rivoluzionario”. Chiudono il “dossier Invictus” una panoramica sui film calcistici africani presentati al “XX Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina” e una riflessione (un po' delirante, in realtà) di Luca Barnabé su quella che lui descrive come “la scena di rugby più bella della storia del cinema”. Si tratta, ovviamente, della finale tra gli Springbox e gli All Blacks, secondo Barnabé sconvolgente in quanto “è la prima volta che un cineasta mette lo spettatore al centro del match (…) Come per Mandela, il modo in cui ogni sguardo riesce a “vedere” lo sport forse può cambiare il senso alle cose”.

 

Succose novità arrivano dalla Francia, e sulle ultime pellicole di Alan Resnais (Gli amori folli, maldestra traduzione dell'originale Les herbes folles) e di Jacques Audiard (Il profeta) il giudizio positivo della redazione è unanime. L'intervista a Resnais è imprescindibile: il regista della Nouvelle Vague (espressione forse impropria se, a quanto ammette lui, Truffaut e Rivette lo salutavano appena) sviluppa interessanti riflessioni sull'abbondanza disorientante dell'offerta cinematografica di oggi e sulla salute del cinema contemporaneo. Più nel merito del suo ultimo lavoro, invece, Resnais confessa la filiazione del suo stile fotografico palesemente antirealista a certi coloristi dei fumetti e delle graphic novels. Col suo consueto cast (sostanzialmente quello di Cuori) Resnais riesce secondo Barnabé a realizzare un altro gioiello di stile, grazia e amore per i suoi personaggi, “confidando nei suoi personaggi e nel cinema come nessun altro autore vivente”. Malik El Djebena, antieroe bressoniano protagonista de Il Profeta, è, a detta di Massimo Causo, emblema della poetica audardiana: un cinema “di fratture nel segno della continuità, organizzato su personaggi introflessi , nati in sottrazione e destinati ad affermarsi oltre il confine della parabola in cui sono inscritti”. Un eroe, insomma, in attesa del suo definirsi, secondo un processo di formazione che consiste, nei fatti, di un continuo scontro tra il susseguirsi logico degli eventi e la psicologia dei personaggi a tali eventi estranea. “L'atarassia” scrive Causo “sembra il punto focale della poetica di Audiard, uno strano tentativo di fare cinema altamente emotivo raggelandolo nella forma di un filmare i personaggi aggredendoli dall'esterno nella loro mitezza, scorticandoli nella loro sottomissione”.

 

Fa discutere, invece, l'ultimo Martin Scorsese. Federico Pedroni, curatore in questo numero delle interviste al regista e al suo pupillo Leonardo Di Caprio, sostiene che il difetto maggiore di Shutter Island sia il suo eccessivo citazionistimo, il suo continuo rifarsi a generi e stili del passato, il suo voler essere un tributo smaccato ad atmosfere e ad autori del noir classico (Preminger e Tourneur in primis). In questo sistema che tende all'accumulo, sostiene Pedroni, il rischio “consiste nel rimanere invischiati nella meccanica dell'omaggio devoto, nel rendere vagamente ripetitivo e fine a se stesso un atto di amore appassionato ma un po' troppo preciso, calcolato, bilanciato”. Colpa di Scorsese sarebbe insomma il non aver saputo, in linea con titoli quali Cape Fear o New York New York, trasformare l'ispirazione in forme più personali ed originali, sintetizzare le influenze per evitare il manierismo. Completa il lavoro di Pedroni, infine, un articolo di Massimo Rota, che ripercorre le fila dello scrittore Dennis Lehane (autore de “L'isola della paura”, romanzo da cui Shutter Island è nato), autore in bilico tra il noir e il Grande Romanzo Americano, nome di punta di uno speciale “romanticismo bostoniano”, portabandiera di uno stile cinematografico di scrittura, molto attenta alla messa a fuoco, all'inquadratura, alle azioni dei personaggi come motore della narrazione.

 

Apprezzato unanimemente, invece, La bocca del lupo, strambo documentario del giovane Pietro Marcello, storia d'amore tra marginali in una Genova animata da fantasmi del passato. Un film, ci spiega lo stesso Marcello nell'intervista, dalla genesi particolare, che riesce a colpire nel segno proprio perché riesce a trascendere il dogma del realismo oggettivo, la politica del non-intervento dell'autore. Lo spessore linguistico e l'influenza palesemente cinematografica, secondo Chatrian, non intaccano mai il piacere genuino nel “filmare il corpo ed ascoltare una voce”, abbandonandosi a una speciale poesia che “segue il flusso della vita dove essa persiste e rinasce, con un'asciuttezza che ricorda una lirica di Umberto Saba”. L'inclassificabilità e l'anomalia di questo lavoro sono spunti per una riflessione sulla salute del documentario in Italia e nel mondo. Finita l'esperienza Telepiù, scrive Luca Mosso, non c'è mai stata una vera formazione a riguardo, né una rete sociale che portasse al confronto e all'aiuto reciproco: la nuova generazione “è costretta a cercare in autonomia oltreché i finanziamenti anche i propri modelli estetici”. In un contesto simile, accade che il cinema si riproduca anche in assenza di cinema, e che film come questo, nati lontano dall'industria cinematografica, trovino inaspettatamente una loro ragion d'essere. Resta solo da augurarsi che “la carta vincente de La bocca del lupo si trasformi in un fecondo indirizzo progettuale”. A chiudere il “dossier documentario”, infine, la presentazione de L'Officina del Reale, libro-guida di Mario Balsamo sulla realizzazione di film documentari, un'intervista a Jordi Ballo, direttore del Máster en Documental de Creación dell'Universitat Pompeu Fabra di Barcellona, e un excursus sui documentari presentati al Festival di Rotterdam, festival che nel suo volersi internazionale “rivela le linee di tendenza del nuovo cinema: il suo essere lo specchio di un'infelicità senza desideri”

 

Tra i numerosi articoli di argomento non cinematografico, da segnalare è senza dubbio la descrizione, ad opera di Matteo Bittanti, di una conferenza tenuta alla mitica City Lights di San Francisco da Jaron Lanier. L'autore, tecno-guru ed evangelista della realtà virtuale, nel suo ultimo libro You Are Not A Gadget manifesta una palese insofferenza nei confronti del Web 2.0, la rete collaborativa e partecipativa. Elabora concetti importanti, Lanier, e opinabile. Estrapolando una singola frase, “l'intelligenza collettiva è un mero slogan pubblicitario, una colossale simulazione programmata per venderci inutili accessori e dannose ideologie”. Oppure: “il Web 2.0 ha svalutato e svilito completamente l'attività del singolo, la creatività del genio neoromantico, privilegiando la superficialità e la banalità del copia e incolla”. O ancora: “Wikipedia ha creato un nuovo fascismo, spacciando per democrazia quello che in realtà è un modello dittatoriale di falsa conoscenza”. Liquidato dall'establishment come “romantico snob” e “ipocrita”, Lanier elabora tesi spesso non condivisibili, ma che hanno l'indubbio pregio di discutere e far discutere su una rivoluzione in sordina, quella del Web 2.0, rivoluzione che riguarda non tanto (o non solo) un progresso tecnologico, quanto piuttosto una nuova fruizione globale di tale tecnologia. Le inquietudini dell'autore americano, forse, derivano in parte proprio dall'assordante silenzio nel quale questo cambiamento forse epocale si sta sviluppando.

 

 

di Raffaele Pavoni

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