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Alex Ross

Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo


Milano, Bompiani, 2009, pp. 880, 29,50 euro
ISBN 978-88-452-6287-6

Colloquiali nell’esposizione e ambiziosissime nell’impianto, le quasi novecento pagine di The rest is noise – scritto tre anni fa da Alex Ross, critico musicale del New Yorker, e ora tradotto in italiano da Bompiani – rappresentano una scommessa vinta a metà: e non è un risultato da poco, data la monumentalità dell’opera, per quanto gli “strilli” della quarta di copertina («Un libro destinato a diventare un classico sul XX secolo», «Un lavoro ambizioso e pienamente riuscito») possano indurre a sperare in un esito ancor più memorabile.

 

Cosa ci racconta Ross, e – come recita il sottotitolo – cosa c’induce ad ascoltare? In pratica la storia del secolo che da un decennio ci siamo lasciati alle spalle, filtrato attraverso la sua musica cosiddetta colta: intendendo per essa non solo la “classica” in senso stretto (operistica, sinfonica, cameristica) e l’elettronica, ma anche quella appartenente a famiglie di altro ceppo, dal be-bop al rock, che con la musica classica si trovarono a interagire. Il tutto partendo da una premessa sulla quale discutere sarebbe lecito ma inutile, visto che non condividerla vanificherebbe il senso della domanda su cui si basa il libro: perché nel ventesimo secolo letteratura e pittura hanno continuato a rappresentare un patrimonio culturale condiviso, mentre la musica classica, delizia del grande pubblico ottocentesco, a misura che il Novecento avanzava è diventata appannaggio di una élite?

 

Una possibile risposta – implicita nel titolo – è che, dopo una sostanziale eufonia durata almeno quattro secoli, nel Novecento la dialettica musica/rumore non è stata più vissuta, da molti compositori, in senso dicotomico. Non a caso Ross alza l’ideale sipario del proprio libro sulla fragorosa e dissonante Salome di Richard Strauss (1905), intesa come prima “vera” opera del teatro musicale novecentesco, benché arrivi tre anni dopo Pelléas et Mélisande di Debussy (che con le sue sonorità liquide e rarefatte poco si sarebbe prestato a un discorso sul rumore) e cinque dopo Tosca di Puccini (che, con la sua première il 14 gennaio 1900, aprì a tutti gli effetti il melodramma del ventesimo secolo). Tuttavia, nei momenti in cui il libro azzarda – per così dire – un discorso sull’ontologia musicale del rumore, Ross preferisce cedere la parola a compositori più “impopolari” di Strauss: Anton Webern (nella cui dialettica tra mobilità della vita e fissità della morte troviamo il rumore più assordante seguito da un silenzio paradossalmente ancora più assordante), Hanss Eisler (per il quale il rumore della strada non era mero rumore, in quanto prodotto dall’uomo) e John Cage (che in un manifesto del 1937 ebbe a dichiarare: «Credo che l’uso del rumore per fare musica continuerà e crescerà»).

 

Per il resto il libro è una cavalcata – insieme storica e musicologica – attraverso quello che, dopo la celebre definizione di Eric Hobsbawm, è diventato per tutti «il secolo breve»: l’ordine cronologico degli eventi è tendenzialmente rispettato (certi piccoli passi indietro e salti in avanti sono funzionali alla narrazione), la scansione dei capitoli passa dai primi albori novecenteschi viennesi e parigini ai vagiti musicali statunitensi, dalle composizioni nate nella Repubblica di Weimar a quelle per il Terzo Reich, dalla politica musicale staliniana alla grande stagione degli esuli europei in terra d’America; per proseguire con il dopoguerra inglese di Britten e dei pupilli della scuola di Darmstadt, giù fino al minimalismo di John Adams e Philip Glass. Ogni capitolo potrebbe essere oggetto di un volume a se stante: è il fascino e insieme il limite del libro, affresco volutamente e inevitabilmente non esaustivo, con le sue antipatie (Ross, si direbbe, non fa nulla per nascondere una certa diffidenza umana verso Mahler, e ancor più verso Schönberg), simpatie, parzialità.

 

Così, per quanto riguarda i compositori la cui parabola coprì parte del Nove come dell’Ottocento, a Strauss e Mahler sono riservate posizioni protagonistiche; a Debussy un poco meno; a Ravel meno ancora (anche se la descrizione che lo vede durante la grande guerra al volante di un autocarro militare è un momento di ottimo reportage). A Puccini è lasciata solo una rapida apparizione comprimariale; mentre l’unico altro musicista italiano del Novecento degno di analisi, per il libro, è Dallapiccola. I vari capitoli hanno il taglio, e il tipo di approfondimento, del buon saggio di rivista: rappresentano più che altro un valido punto di partenza, anche grazie all’ampia bibliografia posta a corredo, per approfondire autori e segmento storico di volta in volta affrontati. Il più appassionante, forse, è quello degli europei oltreatlantico, con Stravinskij, Schönberg, Weill, Korngold, Krenek (ma pure Thomas Mann e Theodor Adorno) «condannati al paradiso», secondo la celebre espressione schönberghiana: ovvero lontani dalla propria patria (per motivi ora razziali, ora politici, più di rado anche solo estetico-artistici), ma accolti a braccia aperte da un Nuovo Mondo che sapeva ben ripagarli pure finanziariamente. L’istantanea più godibile, invece, è quella che vede il futuro Billy Wilder, non ancora regista di culto ma alle prese con il suo antico mestiere di giornalista, intervistare Richard Strauss sull’Italia e Mussolini.

 

Nella versione italiana del libro un limite non da poco è la mancanza dell’indice dei nomi. Un valore aggiunto è invece la traduzione di Andrea Silvestri, limpida e scorrevole come – a giudicare dal tono complessivo – si direbbe che sia la prosa di Ross.

 


 

di Paolo Patrizi


copertina

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