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Daniel Mesguich

Entretiens avec Rodolphe Fouano


Paris, Albin Michel, 2009, pp. 204, euro 16,00
ISBN 978-2-226-18998-1

«Je n’ai jamais quitté l’école…», constata il protagonista di queste Interviste, rilasciate poco dopo la sua nomina a direttore del Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique, a Parigi. Lo fa col senso d’una continuità e d’una vocazione inderogabili e Rodolphe Fouano così motiva il proprio approccio: «Daniel Mesguich posant qu’il ne sait pas ce qu’est le théâtre, il était inutile de chercher à lui faire dévoiler ici un contenu […]. Encore fallait-il, en évitant autant la biographie de l’acteur que la monographie du metteur en scène, commencer par le commencement, c’est-à-dire revenir sur son propre parcours, depuis son enfance en Algérie, son adolescence à Marseille et sa montée à Paris pour présenter le concours du Conservatoire» (p. 10). Iniziata nei primi anni Settanta l’attività di regista e di attore teatrale, Daniel Mesguich sembrerebbe accedere a una fama adeguata soltanto all’inizio dell’ultimo secolo. Esordiente con Le Château da Kafka (1972), proseguendo con Candide, Le Prince travesti e Britannicus (1973-75), è invitato nel 1977 a Grenoble da Georges Lavaudant per l’allestimento di Hamlet, lavoro con cui la sua personalità s’impone. Quarant’anni d’apprendistato ininterrotto, nell’affrontare i classici soprattutto francesi, lo hanno condotto a una collocazione di rilievo eppure appartata. Nel 2008 è nominato direttore del Conservatoire, dov’era stato rifiutato alla prima prova d’ammissione, ma dove aveva poi svolto una lunga carriera d’insegnante. Sembrerebbe il coronamento prestigioso di un percorso intenso, ma è piuttosto, per l’artista eclettico, un modo di restare fedele alla vocazione e pedagogica e creativa, verso un’arte del teatro che prevede insegnamento e rappresentazioni; ricerca e verifica di mete sempre rinviate al futuro. Un’ambiziosa avventura per nobilitare l’arte della scena, nella tradizione più severa e nella modernità più rischiosa (p. 134), rivendicate insieme per ridare impulso alla sua recente responsabilità.

 

Nato nel 1952 ad Algeri, ha sempre lottato da intellettuale e “filosofo”, fino dalla passione giovanile per il pensiero di Marx e di Sartre (unita alla frequentazione del cinema), fino a subire il fascino di «Tel Quel» in quanto rivista dichiaratamente maoista. Il tragitto da Algeri a Marsiglia e Parigi si conclude a 17 anni, col concorso al Conservatoire. «J’étais en quête de je ne sais quoi qui fût à la fois hors norme et universel. D’où mon hésitation: Marx ou Gérard Philipe…» (p. 19). I suoi rapporti con quell’istituzione sono rivissuti dall’interno, nelle tappe dell’allievo, nel ruolo d’insegnante e in quello di direttore. Il periodo centrale si svolge sotto il magistero di Antoine Vitez, la cui influenza è riconosciuta capitale nell’orientamento e nella formazione, per la “regalità” di quel suo metodo che, basato sull’ “esercizio”, lo ha “ricucito” e gli ha infuso la fiducia in se stesso; quella che oggi gli impone di perseguire con la Scuola il dialogo culturale e non limitarsi alle tecniche del mestiere; di inserirsi nel gran coro di solisti che è stato il teatro del suo tempo. Quasi un autoritratto, appare il profilo in memoria di Vitez, tanto che conviene nel confessare: «Je cherche, quant’à moi, la même rigueur libre, la même légèreté grave» (p. 65). Accanto, agiscono anche le lezioni di Pierre Debauche e di Jacques Rosner, con trasfusioni feconde d’esperienza e amicizia. La speranza è potersi dimostrare un «amateur qui ajoute quelque chose au monde» (p. 19).

 

Attore di teatro con i registi Jean Meyer, Antoine Bourseiller, Robert Hossein, Jean-Pierre Miquel; attore di cinema, diretto da Deville, Costa-Gavras, Robbe-Grillet, Pinheiro, Ivory; regista di prosa con decine di creazioni, da Le Château a Hamlet e Roi Lear; da Platonov e Le Diable et le bon Dieu a Le Prince de Hombourg. Direttore di Teatri Nazionali, quali il Gerard Philipe di Saint-Denis o La Métaphore di Lille. L’artista giunge anche ad aprire una propria scuola, il Théâtre-école du Miroir, nella convinzione che il teatro possa meglio della filosofia svelare la potenzialità del pensiero mediante il corpo (pp. 110-11); in vista di un programma che prevede di forgiare negli attori di oggi e di domani degli artisti-poeti. Per questo offre il proprio esempio, la sua fede a un ideale che né la prassi né le derive programmatiche o di gusto riescono a intaccare: «Mais c’est que j’imagine le théâtre plus grand que mon savoir. L’acte de théâtre excède tout savoir» (p. 148). Nella difficoltà di trovare l’equilibrio fra gestione organizzativa e creatività, ricorre al raccordo fra tradizione e modernità per sostenere: «Je pensais même qu’un directeur du Conservatoire se devait d’être aussi un artiste en activité. C’est bien pour cette activité d’artiste, d’ailleurs, que j’ai été nommé, et non pour d’éventuelles qualités de gestionnaire et d’administrateur d’école!» (p. 126). Mantenendo dunque vive attenzioni e attività disparate, giustifica la conclusione dell’intervistatore sulla figura in continuo movimento di ricerca: «Il m’est apparu dans le rôle de l’homme pressé, insatiable» (p. 11).


di Gianni Poli


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