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Duellanti, anno IX, n. 58, gennaio-febbraio 2010


n. 58, anno IX, pp. 120, 6,00.
ISSN 1724-3580

"Duellanti - mensile di cinema e [apparizioni]": questo recita la copertina del numero di gennaio. "Ci piace cambiare il secondo termine del binomio, provare a generare accostamenti poco giudiziosi, o cortocircuiti imprevisti, o associazioni stridenti": è quanto scrive nell'editoriale Dedicato agli appariscenti Gianni Canova, che prosegue affermando (e scegliendo deliberatamente di non argomentare la sue tesi) che in una realtà inghiottita dai suoi simulacri mediatici il cinema resta l'unico luogo in cui sono possibili epifanie e rivelazioni.

In primo piano è posta l'ultima complessa e controversa fatica di Joel e Ethan Coen: A Serious Man. L'entusiasmo generale della redazione per questa "pseudo-parabola yiddish" è palese, e ad un'interessante intervista agli autori seguono ben quattro articoli critici. Nel primo Marco Toscano individua la grandezza del film nel suo saper porre domande, nel suo saper descrivere – in modo né cerebrale né religioso – quell'insensatezza che, trascendendo la stupidità delle persone (al contrario di Burn After Reading), scaturisce dal disegno stesso della Creazione. Quest'impotenza della ragione si traduce, a livello strutturale, in una narrazione più aneddotica, episodica, in cui vero e falso diventano interscambiabili, indistinguibili. "Nessuna formula" scrive Toscano "è in grado di dare ordine all'esistente, l'indeterminazione si radicalizza nella più cupa imperscrutabilità". Concetto, questo, che costituisce l'enunciato del film, e sul quale si sviluppano le altre analisi critiche: quella di Guido Bertagna, che suggerisce un paragone tra la storia di Larry Gopnik e il Libro di Giobbe (indagando, a discapito dell'evidente analogia contenutistica, il diverso ruolo giocato da Dio e dal destino nelle due opere); quella di Matteo Bittanti, che definendo A Serious Man una sorta di "rebus musicale" ne intraprende una lettura semiseria a partire dalla colonna sonora, più che mai rivelatrice ("Al pari di Somebody To Love il film pone una domanda: esiste il libero arbitrio oppure siamo semplici pedine in un imperscrutabile gioco messo in atto da Dio?"); quella, infine, di Ivan Moliterni, il quale, gettando un breve sguardo d'insieme alla filmografia coeniana, ne evidenzia la ricorrente impotenza della ragione: difficile credere in una realtà che si sfalda progressivamente, in cui sono vane sia le previsioni che le condanne, in cui il dubbio "da presupposto dell'indagine attiva e della volontà di scardinare il dato oggettivo si mostra nel suo potere erosivo, in quanto strumento di incertezze e pessime sorprese". La sorte, prosegue Moliterni, torreggia sulle esistenze alla deriva di personaggi come Larry, che "non hanno fatto niente", come esclamerà lo stesso protagonista in una scena del film: quelli coeniani sono personaggi che non agiscono ma "sono agiti da meccanismi illogici che li travolgono".

Dalla lettura delle analisi filmiche di questo numero emergono, tra schede critiche tradizionali, interessanti riflessioni politiche. Discreto spazio, ad esempio, viene dedicato a Il mio amico Eric, sorprendente commedia di Ken Loach che vede Eric Cantona indossare i panni di produttore-attore di se stesso. Nonostante il film sia uno dei suoi lavori meno "politici", il regista non manca di far discutere i suoi più accaniti detrattori. E così, dopo un'intervista all'autore e un'analisi della figura di Eric Cantona, Massimo Causo nella sua recensione mostra sì apprezzamento per l'opera di Loach, ma solo in relazione alle sue pellicole precedenti, ingiustamente vituperate. "Se come in questo caso" scrive Causo "Loach non indulge nel catechismo del buon progressista, il risultato è non solo accattivante ma anche interessante". O ancora: "La verità del quadro appare qui molto più autentica e sincera di certi presepi sociali intrisi di pedanteria progressista confezionati in precedenza". Parole dure e certo opinabili, come dure ed opinabili sono le critiche di Alberto Pezzotta a certa sinistra nel suo articolo su La Prima Linea di Renato de Maria, articolo che in realtà del film parla poco o nulla. Le polemiche (spesso pretestuose) che hanno accompagnato (o meglio, preceduto) il film danno modo di riflettere sulla rappresentazione degli anni di piombo sul grande schermo, di chiedersi quale sia la maniera giusta di raccontare quegli anni, senza – scrive Pezzotta - "deludere per la paura di prendere posizione, indignare per il giustificazionismo, irritare per la superficialità". Deprecando il distinguo di Toni Negri - a suo giudizio capzioso – tra "terrorismo" e "lotta armata", Pezzotta trova la "giusta rappresentazione" in opere quali Buongiorno, Notte di Bellocchio e l'introvabile film televisivo di Damiani Parole e sangue. Del film in sé parla poco anche il successivo articolo di Gianni Canova, L'uso e l'abuso, dove si punta piuttosto il dito sulle polemiche e, in particolare, sulla potenza persuasiva del cinema, medium percepito come pericoloso dalle autorità proprio in a causa del suo continuare a "creare immaginario". Entra più nel merito, invece, Massimo Rota, che nella sua scheda del film, dopo averne lodato lo stile sicuro e controllato, non risparmia critiche, al contrario, nei confronti della sceneggiatura, inverosimile e controfattuale. Di politica si parla anche nell'intervista a Philippe Lioret in occasione del suo bellissimo Welcome, lucido non-manifesto sul problema della mancata immigrazione degli immigrati clandestini in Francia ("La mia intenzione" afferma Lioret "non era certo quella di realizzare un documentario; d'altro canto, come diceva François Truffaut, non esiste un grande film che non sia anche un gran documentario"); infine, spostando il discorso in un ambito più massmediologico, interessanti risultano il divertente e sgrammaticato flusso di coscienza di Marco Aldo Soave (Adesso vi faccio vedere come guarda la tv un italiano) e la riflessione a più voci Il potere formativo delle immagini, titolo di un convegno svoltosi presso l'Università di Milano-Bicocca al quale hanno preso parte sia Canova che, tra gli altri, il regista italo-svedese di Videocracy, Erik Gandini. Si parla dell'influenza mediatica nell'Italia odierna, dei cambiamenti sociali ad essa legati, di quel potere delle immagini secondo Gandini "sottovalutato dall'intellighenzia e anche dalla sinistra", e che secondo Fulvio Carmagnola andrebbe analizzato mappando il territorio della cultura non secondo una scansione verticale, ma secondo criteri topografici, come in una moderna metropoli il cui centro, lo si voglia o no, è tuttora occupato dalla televisione. Posizione "integrata", quella di Carmagnola, condivisa da Mario Barenghi ("È sempre stato così, siamo sempre stati influenzati, alienati da strutture dell'immaginario con cui il potere si esercita") e che Canova volge in polemica, accusando l'istruzione italiana, che avrebbe deliberatamente mantenuto (secondo precise scelte politiche) nell'"analfabetismo iconico" la maggioranza di una popolazione "che con i meccanismi iconici viene governata". Nel suo contributo, infine, Alessandro Dal Lago, originalmente, dopo aver distinto tra immagini iconiche (che conservano una relazione strettissima con il referente) e idoliche (in cui il rapporto tra immagine e realtà si fonda su un arbitrio), interpreta il mutamento sociale in atto come un'interpretazione sempre più iconica delle immagini idoliche. "Su questo" procede Dal Lago "il cinema ha affinato molto le sue capacità di riflessione critica" (Flags Of Our Fathers in primis), essendo per sua stessa natura un medium "non solo metalinguistico, ma intermediale".

Di stampo meno riflessivo e più "antologico", invece, il corposo speciale dedicato alle trasposizioni cine-televisive delle opere di Stephen King, fonte inesauribile di ispirazione. Franco Marineo imputa questo "saccheggio", come lui lo definisce, all'"effettiva capacità di King di penetrare nell'immaginario contemporaneo e di sdoganare temi e visualizzazioni che, prima di lui, erano confinati nella "riserva indiana" del genere o delle letture adolescenziali. King è ormai un archetipo "metamediale", e tutte le sue opere (come le relative derivazioni) funzionano grazie allo studiato equilibrio tra terrore (paura dell'ignoto, dell'immaginato) e orrore (contatto sensoriale con ciò che è difforme), dialettica sulla quale "si giocano i successi o i fallimenti degli adattamenti cinematografici". Nel mare magnum delle trasposizioni kinghiane, nove di esse saranno l'oggetto di analisi nelle pagine seguenti: tra le altre, La metà oscura di George A. Romero, film discusso e sul quale neanche la redazione sembra avere parere unanime, e, ovviamente, Shining di Kubrick, opera che, pur risvegliando un certo interesse critico nei confronti di Stephen King e dando inizio ad una rivalutazione "autoriale" delle sue opere, sarà dallo stesso King profondamente avversata.

Raffaele Pavoni


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