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Duellanti, anno VIII, n. 57, novembre-dicembre 2009


n. 57, anno VIII, pp. 120, € 6,00.
ISSN 1724-3580

"Sappiamo che sono prima di tutto le immagini che disegnano la mappa del territorio in cui ci è dato vivere, e facciamo la rivista soprattutto perché ci piace farla". Questo scriveva il direttore di Duellanti, Gianni Canova, nel numero estivo di quest’anno, e questa è, in breve, quasi in termini zen, la filosofia della rivista. Un ambiente, sembra quasi, più da caffè letterario che da tappeti rossi o dipartimenti di università. Caffè letterario in cui si parla di cinema, certo, ma non solo: si parla di arti visive, di arte tout court, di attualità, di nuovi media, di pubblicità. Il cinema, in tutto questo, è più una passione comune che un oggetto di studio. Concetti, questi, ribaditi anche nel crossroad (l’editoriale), in cui Canova, dopo una breve dissertazione sul potere del video nella società contemporanea - alla luce di recenti scandali madiatici quali il celebre "caso Marazzo" - si pone un interessante interrogativo: "Cosa possono fare le armi della critica in un tempo in cui l’oggetto su cui essa dovrebbe esercitare diventa di fatto, a sua volta, un’arma?". Prosegue, poi, ammettendo la marginalità, in questo momento storico, del ruolo relegato alla critica cinematografica, ma volgendo, secondo la logica delle due facce della stessa medaglia, questa marginalità in positivo, cioè in libertà di pensiero ed anarchico esercizio intellettuale.

Notevole risalto, in questo numero, viene dato a cinque autori: Michael Mann (Nemico pubblico), Michael Haneke (Il nastro bianco), Francis Ford Coppola (Segreti di famiglia), Terry Gilliam (Parnassus) e Pedro Almodovar (Gli abbracci spezzati, film al quale, nonostante il parere non entusiastico dei membri della redazione, è stata dedicata la bella ed accattivante copertina).

Ed è in primo luogo a Michael Mann che la rivista dedica un corposo dossier (o radiografia, come viene qui chiamata). Attenzioni del tutto giustificate, in quanto Nemico Pubblico costituisce un ulteriore tassello nella riflessione del cineasta americano sulla tecnica digitale. Si tratta, infatti, di uno dei primi film in costume girati in digitale, e proprio questa distorsione percettiva, questo "sottile anacronismo", costituisce l’oggetto dell’articolo di Alberto Pezzotta Dillinger nostro contemporaneo. L’incredibile profondità di campo, il realismo di contorni e colori (troppo "reale" per chi da oltre un secolo è abituato agli alogenuri di argento): tutto ciò da un lato provoca un effetto di "bagno nella realtà", dall’altro risulta vagamente spiazzante proprio in virtù del contrasto sia con l’epoca storica sia, soprattutto, con i gangster movie a cui siamo abituati. Della narrazione in sé a Pezzotta non sembra interessare molto, anzi, giudica l’intero film una denuncia mancata, e quello di Mann un cinema potenzialmente di contestazione che trova la catarsi solo in una dimensione individualistica e a-ideologica. Addirittura Pezzotta sospetta (malignamente, come egli stesso ammette) che i film per Mann siano solo "una scusa per sperimentare". Nelle pagine successive, al contrario, Massimo Causo è interessato, più che all'aspetto tecnico, al contenuto del film, riflettendo su come a Mann non interessi tanto l’epica del personaggio, quanto la prossimità sacrale dell’aura al corpo del mito, il suo essere la trascrizione in carne ed ossa di un’immagine trasfigurata nella realtà, in opposizione visiva e dinamica - oltre che ideologica - col suo antagonista Melvin Purvis. Riflessioni, quelle di Pezzotta e Causo, di segno opposto ma complementari, secondo un dualismo caro allo stesso Michael Mann, lo stesso dualismo sul quale si sviluppa – nelle pagine successive - l'analisi di Franco Marineo Teorema di una sfida.

Si parla anche di cinema in senso lato, ovviamente: nell’introduzione di Antonio Livraghi al saggio di Marco Carbone Sullo schermo dell’estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare; nella prima parte (la seconda sarà pubblicata nel prossimo numero) del saggio di Kristin Thompson E se il 3D fosse già finito?; nella riflessione di Roberto De Gaetano su L’infanzia al cinema.

Nel primo articolo Livraghi, col suo stile letterario - come di consueto - molto ermetico e da "addetti ai lavori", mette in relazione il saggio di Carbone al concetto di "carne" del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, in particolare per quanto concerne l’intima relazione tra cinema pittura e filosofia, relazione ben radicata nella cultura francese (al contrario di quella italiana). Carbone mette in relazione tra loro le teorie, oltre che di Ponty, di Gilles Déleuze e del primo Jean-Paul Sartre, filosofi che avevano capito entrambi l’inscindibilità dei tre ambiti nella società contemporanea. Nel saggio il focus è posto proprio sul ribaltamento, da parte dei filosofi sopracitati, del concetto bergsoniano di "movimento giustapposto all’immagine", ribaltamento che ha aperto la strada ad una concezione più ontologica della settima arte come "forma temporale" (vedi il celebre saggio Ontologia dell’immagine fotografica di André Bazin). Purtroppo, appunta Livraghi, Carbone è reticente sul mutamento ontologico in atto per mezzo delle più recenti tecnologie, la cosiddetta "rivoluzione digitale". Non si parla, qui, di videografia, né tantomeno del famoso e famigerato cinema 3D.

Cinema 3D sul quale, come suggerisce il titolo stesso del suo saggio, Kristin Thompson è molto diffidente. Con uno sguardo ben ancorato a risvolti pratici e difficoltà economiche, si cerca qui di analizzare i (pochi) pro e i (molti) contro che l'eventuale diffusione del 3D comporterebbe (per gli operatori cinematografici come per le case di produzione, se è vero che James Cameron non è riuscito a convincere la 20th Century Fox a distribuire esclusivamente la versione 3D del suo Avatar). La Thompson si schiera risolutamente – premettendo tuttavia di non essere disfattista né prevenuta - contro l’approccio positivista al cinema di certi "paladini del 3D". C’è del politico, nel denunciare l’atteggiamento sprezzante verso gli operatori di sala da parte di chi "ci presenta il determinismo tecnologico del medium cinematografico come un destino ineluttabile". Del resto, a parte la significativa eccezione di Jeffrey Katzenberg della Dreamworks, ben pochi condividono l’entusiasmo di James Cameron (tra tutti i silenzi, particolarmente assordanti sono quelli della Pixar e di George Lucas). È un’analisi molto interessante e acuta, quella della Thompson, che solleva problemi reali quali l’inadeguatezza delle sale (dovuta anche alla "scadenza a breve termine" di qualsiasi apparecchiatura digitale, 3D o non 3D), l’estrema inadeguatezza di tutte le cinematografie non-hollywoodiane ("a chi interessa vedere una versione in tre dimensioni di un film come 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni?"), i costi a carico dei gestori delle sale cinematografiche (apparecchiature, certo, ma anche personale per la distribuzione degli occhiali, manutenzione etc.), la mancanza di uno standard internazionale di la proiezione 3D.

Interessante, con un approccio più storico-analitico, anche la breve riflessione di Roberto Di Gaetano su come molto cinema contemporaneo, da Roberto Rossellini in poi, parli di infanzia non come fase della vita (più o meno dilatata a seconda della ricchezza del paese dove il bambino cresce), quanto piuttosto come stato; su come certi film mettano in pratica questo precetto assimilando lo spirito infantile, "aprendosi al set", trovando il loro momento più ispirato e creativo negli scarti tra la continuità del reale ed il carattere discreto delle immagini (come nel cortometraggio di Wim Wenders Il volo).

Tra le analisi ad argomento non (strettamente) cinematografico ve n'è almeno una che merita particolare attenzione, quella offerta da Silvia Colombo in Dalla parte delle bambine. Prendendo le mosse da recenti produzioni a target adolescenziale (Notte prima degli esami e Ho voglia di te), l’autrice nota come tutto l’universo della contraccezione sia, in queste opere, incoscientemente annullato. D’altro canto, nella loro campagna anti-abortista, cattolici e politici configurano una precisa idea drammaturgica, con un personaggio (la madre assassina), un’azione (l’uccisione del bambino concepito), una relazione (la complicità con lo stato laico), un conflitto (il medico obiettore che cerca di fermarla) ed un obiettivo (salvare una vita umana). L’aspetto più eclatante della faccenda, afferma l'autrice dell'articolo, è che tale drammaturgia è stata ormai totalmente introiettata da buona parte delle donne, che spesso infatti dopo un'eventuale aborto ribattono alle accuse mossegli con frasi tipo "ho pagato le conseguenze del peccato (l’aborto) con la moneta del mio dolore (la sofferenza di aver rinunciato a un figlio), ora lasciatemi in pace". Addirittura la Colombo osserva come siano state quelle stesse donne a contrastare l’introduzione di un metodo abortivo meno invasivo (la pillola RU-468), proprio per non essere "defraudate degli argomenti con cui hanno, da sempre, combattuto l’offensiva clericale". In conclusione, si incita il mondo femminile a sottrarsi alla nevrosi allucinatoria modellando una storia diversa da quella sopra enunciata (senza tuttavia rinunciare a raccontarne una): Silvia Colombo, qui, dà un’ottima prova di come certi schemi, apparentemente cinematografici in senso stretto, possano in realtà aprire nuove interpretazioni e stimolare nuove riflessioni anche nell’analisi della realtà quotidiana.

Raffaele Pavoni


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