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Segnocinema, anno XXIX, n. 160, novembre-dicembre 2009
Rivista cinematografica bimestrale

n. 160, anno XXIX, p. 80, € 6,00
ISSN 0393-3865

Segnocinema numero 160 è decisamente interessante e particolarmente denso di contenuti, tanto che se ne consiglia un’attenta lettura non solo agli appassionati della materia, ma, soprattutto, a coloro che di cinema vorrebbero scrivere, in quanto ogni articolo è particolarmente prodigo di spunti, riflessioni ed anche consigli pratici su come provare ad affrontare un’analisi critica del testo filmico. Lo stesso SegnoSpeciale entra nel merito di una delle questioni più importanti del cinema di questi anni o, per meglio dire, del cinema postmoderno: la serialità; ovviamente la premessa prevede che questo sia solo il primo di una "serie" di speciali dedicati a questo tema. Procediamo con ordine.

Enrico Terrone apre la rivista con il suo Battiti e dibattiti ricollegandosi ancora alla discussione aperta da Vincenzo Buccheri con il suo Goodbye cinema? nel numero 152 e proseguita in modo quasi costante, nelle successive uscite, con i contributi, tra gli altri, di Giovanni Bottiroli e Roy Menarini. Terrone sposta ancora più avanti l’asticella del dibattito partendo da uno dei testi teorici recenti più importanti: The Philosophy of Motion Pictures di Noël Carroll. Il testo di Carroll si divide in tre parti: una "ontologica (che cos’è il film?)", una "stilistica (come funziona il film?)" ed una legata alla "teoria dello spettatore (come viene recepito il film?)"; che, in tutta evidenza, restituiscono l’idea di "rifondazione" teorica insita nel libro, alla luce del "paradigma filosofico della scuola analitica". La prima cosa che viene sottolineata da Terrone è come Carroll eviti sapientemente di parlare di "cinema", basando la sua speculazione sul concetto di "film" e, conseguentemente, di "specifico filmico", cercando così di evitare qualsiasi "tentazione storicistica", perché "una teoria del cinema deve funzionare per ogni film del passato, del presente e, possibilmente, anche del futuro". Carroll svincola la sua definizione di film da qualsiasi giudizio di merito artistico dell’opera, riportando quattro "tratti ontologici essenziali dell’oggetto film": 1) lo spazio dello spettacolo deve essere "sconnesso" da quello dello spettatore (il film non è interattivo); 2) deve prevedere "l’impressione del movimento"; 3) deve essere "bidimensionale"; 4) deve prevedere una "relazione di dipendenza tra l’opera (type) e le sue occorrenze (token)", ovvero le proiezioni. Questa opera di spoliazione del testo filmico da una qualsiasi aura artistica prosegue, ancora più evidente, nella parte relativa al suo funzionamento, dove Carroll nega che il cinema sia un linguaggio, in quanto "il riconoscimento delle immagini è un’abilità innata in qualsiasi spettatore", per cui non c’è bisogno di nessuna "mediazione linguistica". È in questa fase che inizia a formarsi una sorta di giudizio critico sull’opera, che si perfezionerà nella parte più propriamente ricettiva del film, dove lo spettatore cessa di essere un "soggetto storico e sociale" per diventare "soggetto naturale", in quanto usa "abilità innate" e non sovrastrutture linguistiche. Ciò porta ad un’ultima, importante conseguenza, ovvero l’eliminazione del "concetto di immedesimazione" tra lo spettatore e il personaggio del film, sostituito dalla catena emotiva di base costituita da stimolo-elaborazione-reazione, in un rapporto che da "empatico" diventerà, tutt’al più, "simpatico". Per Terrone, più che le risposte, sono le domande poste da Carroll a rivestire un carattere di imprescindibilità per valutare l’attendibilità di qualsiasi teoria sul cinema passata e a venire. Lo stesso impianto viene applicato alla critica cinematografica partendo, questa volta, dal testo di Francesco Muzzioli, Quelli a cui non piace. Pamphlet sull’esercizio della critica, dal quale deriva un pertinente (e divertente), test per verificare il valore di una di una recensione cinematografica e, di conseguenza, capire lo stato di salute della suddetta critica.

Perché i film invecchiano male? è l’inquietante (quanto reale) interrogativo che si pone Paolo Cherchi Usai, che prende spunto dall’apparentemente innocua frase "ho visto un vecchio film", sottolineando come quell’aggettivo non sia quasi mai usato se ci si riferisce a libri o quadri. Per Cherchi Usai questo è un sintomo di come le stagioni cinematografiche si consumino in fretta e di come i film siano intuitivamente databili, nonché inevitabilmente datati, a prescindere dal loro effettivo valore artistico; ciò rende praticamente impossibile non solo la stesura di un canone assoluto ma anche l’individuazione di un solo "capolavoro immortale". L’articolo è corredato da una variante cinematografica del "Questionario di Proust", ovvero un elenco di trentuno domande alle quali rispondere a cadenze regolari di quattro o cinque anni, senza consultare le precedenti risposte, constatando così sulla propria esperienza il concetto di invecchiamento di un film, attraverso la verifica di tutte quelle pellicole, quegli attori e quegli autori che saranno spariti dalla nostra considerazione.

Come accennavo sopra lo speciale di questo mese, dal titolo C’era una volta il film prototipo 1°, riguarda la serialità ed è abilmente curato da Mauro Antonini, che si avvale dei pregevoli interventi di Roy Menarini (Be Kind Rewind), Davide Turrini (L’autorialità invisibile), Flavio De Bernardinis (La critica e i supereroi), Andrea Fontana (La morte è soltanto il principio) e dello stesso Mauro Antonini (L’iconocentrismo del sistema seriale), corredati da un prezioso glossario dei termini legati al cinema seriale che, ai già noti remake e sequel, ha aggiunto parole come cliffhanger, midquel, sidequel, reboot, franchise e postmodernità varie. Leggendo questi articoli si ha la netta sensazione che la serialità, all’alba del nuovo millennio, stia svolgendo la stessa funzione "rassicurante" che ha avuto il cinema classico negli anni ’30: in un periodo di evidente crisi politica (di cui gli attentati al Word Trade Center, sono la parte più dolorosamente evidente) ed economica (come testimoniano le varie bolle speculative e vari i fallimenti, che si sono ciclicamente alternati in questi anni), il cinema ha dovuto riguadagnare il suo ruolo sociale di ammortizzatore delle tensioni sociali (compito che Menarini affida soprattutto al reboot, ovvero alla rifondazione ex novo di serie che parevano avere esaurito il loro appeal sul pubblico, come Batman, Star Trek ma anche L’agente 007), senza dover ricorrere necessariamente a storie "rassicuranti", ma piuttosto cercando di fidelizzare il pubblico ad un determinato prodotto. In un periodo di eclettismo autoriale ed attoriale, le serie rappresentano l’unica certezza per lo spettatore (ormai assuefatto alla serialità televisiva) di trovare il "prodotto" che veramente lo appassiona, legato al "personaggio-icona" che diventa il "fulcro industriale, narrativo ed espressivo delle odierne saghe cinematografiche", siamo quindi di fronte al personaggio serializzato che si sostituisce al genere (Antonini). Questo primo gruppo di contributi sul cinema seriale risulta molto eterogeneo e ben strutturato, anche se, per adesso, si nota l’assenza di un confronto con quello che dovrebbe rappresentare, quantomeno, un punto di riferimento storico e teorico della serializzazione, basata oltretutto sul cortocircuito delle figure dell’autore, dell’attore e del personaggio, ovvero Charlie Chaplin (c’è solo un generico accenno nell’articolo di Turrini, che lo lega alla coazione a ripetere tipica delle comiche in generale). Speriamo che le prossime puntate colmino anche questa lacuna.

Tra le schede di Segnofilm c’è da sottolineare una novità che riguarda due film passati all’ultima Mostra del Cinema di Venezia e che hanno letteralmente diviso la critica in appassionati sostenitori e altrettanto convinti detrattori cioè Baaria di Giuseppe Tornatore e Il cattivo Tenente di Werner Herzog, per i quali si è scelto di dare voce a tutt’e due le fazioni con due recensioni: una positiva (Perché Sì) ed una negativa (Perché No), scelta un po’ troppo salomonica ma sostanzialmente condivisibile (ed anche, perchè no, reiterabile).

Il numero si completa con le consuete rubriche dove troviamo attenti resoconti dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, del Festival di Locarno e delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone. Un accenno a parte continuano a meritarlo le rubriche di Cristina Jandelli (ActorSegno) e Paola Valentini (SegnoSound), che in questo numero si occupano rispettivamente di Charlotte Gainsburg in Antichrist di Lars Von Trier e del film Le tre scimmie di Nuri Bilge Ceylan. Importante e delicata la scelta fatta da Cristina Jandelli, che si concentra su un film molto discusso (e discutibile) in cui gli attori sono chiamati ad una prova davvero estrema, che superano a pieni voti, pur percorrendo due strade notevolmente diverse tra loro e, comunque, dimostrandosi più inattaccabili del loro regista. Puntuale e, oserei dire, da manuale è l’analisi "sonora" che Paola Valentini restituisce del film di Ceylan, dove individua sia le parti armonicamente riuscite che le contraddizioni insite in scelte di "disegno sonoro", che incrinano la stessa solidità del film. Insomma anche questo numero di Segnocinema si rivela una lettura molto interessante ed anche appassionante, nella convinzione che, come ricorda Mauro Antonini alla fine della sua introduzione allo speciale sulla serialità, "That’s not all, folks!".


Luigi Nepi


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