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España y Nápoles. Coleccionismo y mecenazgo virreinales en el siglo XVII.

A cura di José Luis Colomer

Madrid, Centro de Estudios Europa Hispánica, 2009
ISBN 978-84-93463-7-0

Dopo  i preziosi volumi dedicati ai rapporti storico-artistici che la penisola iberica ebbe prima con Genova, poi con Bologna, apparsi rispettivamente nel 2003 e nel 2006, il Centro de Estudios Europa Hispánica ha pubblicato di recente l’imponente miscellanea España y Nápoles. Coleccionismo y mecenazgo virreinales en el siglo XVII. Vi si raccolgono gli studi di venticinque specialisti di diversa nazionalità, impegnati da tempo a ricostruire gli scambi culturali e i contesti di una stagione dominata dalla potenza spagnola, a tutt’oggi essenziale per comprendere fino in fondo il senso di un’identità mediterranea che è ancora percepita, a distanza di secoli, come un patrimonio suggestivo e difficile. C’è qualcosa di arduo, di temerario nell’impresa, come se si avvertisse di dover indagare le dinamiche di un passato liberandosi degli sguardi deformati del tempo avvenire e dall’acquisizione silenziosa di destini comuni. Nel breve testo di presentazione a firma dell’ambasciatore italiano a Madrid, Pasquale Q. Terracciano, si ribadisce perentoriamente come «Nápoles es sin duda la ciudad más española de Italia, en el sentido de que, a lo largo de los siglos, ha mantenido vivo y tangible el legado artistico y cultural heredado de la Corona española». Se la vivezza e la tangibilità non si discutono, il pericolo si annida esclusivamente nel “sentido”. Quale peso è da attribuirsi a questa eredità? Da un lato, sembra di trovarsi alle prese con un luogo comune su cui non vale la pena di soffermarsi oltre, per ragionare su forme di ricezione e scambio tra realtà territoriali in continuo confronto e per un arco plurisecolare; dall’altro – ed è problema assai più spinoso - sono fortissimi gli echi di una valutazione storiografica negativa, avversa ai valori della hispanidad per gli effetti che avrebbe causato sul Mezzogiorno d’Italia, per uno sfruttamento senza prospettive di sviluppo ispirato al mantenimento esteriore di un prestigio insidiato dalle evoluzioni politiche, sociali ed economiche nel cuore dell’Europa.

Il lungo saggio introduttivo del curatore, José-Luis Colomer (España, Nápoles y sus virreyes, pp. 13-37), appare dunque come una premessa indispensabile per orientarsi in un lavoro ambizioso e delicato: bisogna ripercorrere il lungo cammino verso il recupero di un corretto approccio alla dominazione spagnola a Napoli, schiacciato in un primo momento dalla fierezza con cui la riconquista dell’autonomia nel Settecento e il rifiuto del barocco guardarono a un’epoca di forzata sottomissione a un potere centrale dispotico e vessatorio, e quindi travolto dall’insofferenza dell’età risorgimentale per lo “straniero”, con qualsiasi volto e con qualsiasi nome. «Il mismo interés actual por los aspectos de mutua influencia» (p. 13)  rivolto al collezionismo e ai legami tra le personalità eminenti dell’apparato governativo e gli architetti, pittori e scultori attivi nella capitale è un dato recente, ma la duratura autosufficienza documentaria degli storici dell’arte di area meridionale nel «dar razón de la actividad de sus artistas» (ibidem) rappresenta l’estremo baluardo di una “diffidenza” che ha radici lontane, mentre si corre il rischio di non valutare appieno il pregio delle officine locali se si prescinde da una committenza transnazionale attenta, continua, vigile, e determinante per gli impatti sul mercato come per gli orientamenti creativi. Mecenatismo e collezionismo sono la conferma di un rapporto biunivoco e fruttuoso tra Spagna e Mezzogiorno d’Italia, l’ultima frontiera di una riscrittura della storia socio-politica, economica, militare di un’ampia regione del continente europeo interessata da una ridefinizione del proprio ruolo e delle proprie potenzialità tra XVI e XVIII secolo. A Benedetto Croce, alle sue monografie e all’impegno per la rivista «Napoli Nobilissima» va il merito di avere promosso, a cavallo tra Otto e Novecento, un’investigazione non preconcetta sulle vicende napoletane del Seicento, inaugurando così una linea di ricerca che ha avuto, tra i suoi protagonisti, studiosi del calibro di Federico Chabod, Delio Cantimori, Rosario Villari. Un vero e proprio salto di qualità nell’analisi storiografica per la sensibilità ai problemi della transizione dal feudalesimo al capitalismo, della crisi secentesca e dei riassetti dell’Ancien Régime con particolare riferimento alla Monarquía Hispánica si deve al magistero di Giuseppe Galasso (di cui nel volume si ripropongono le intense pagine del 1994 su Una capitale dell’impero, pp. 39-61), autore di contributi fondamentali per aver considerato «el virreinato en el contexto de la realidad geopolitica a la que perteneció, es decir la España imperial, entendida como un conjunto de partes interdependientes, un sistema en el que el Reino de Nápoles gozó de privilegiados vínculos con Madrid como principal elemento de la Italia española» (p. 23): in questo solco si collocano ulteriori interventi critici di notevole spessore, di Raffaele Ajello, Giovanni Muto, Aurelio Musi, Pier Luigi Rovito, Maria Antonietta Visceglia, accanto alle monumentali esperienze realizzate tra sovrintendenze e centri di ricerca (su tutte la mostra su Civiltà del Seicento a Napoli, ma anche il lancio di una rivista quale «Ricerche sul ’600 napoletano» e una fioritura di studi bibliografico-museali), fino – potremmo aggiungere oggi – all’imminente Ritorno al barocco che si celebrerà a Napoli in varie sedi tra 2009 e 2010, indizio di un’attenzione mai sopita per un’epoca di controverso splendore.

Insomma, parrebbe definitivamente liquidata la «leyenda negra» che pure ha avuto i suoi cultori novecenteschi: un ultimo diaframma, seguendo il filo del ragionamento di Colomer, è non solo nel restituire ai viceré piena dignità di statisti, ma anche nel riflettere sui cerimoniali laici e religiosi, sull’arte del regalo, sulle commissioni delle opere più disparate come opportunità per rinsaldare legami dinastici e cortigiani, elaborazioni di un consenso da spendere nella madrepatria e presso i potentati locali, itinerari di affinamento personale in un scenario contraddistinto da forme e simbologie complesse. L’indagine storico-artistica che si dipana nel volume intende proporsi quale ribaltamento risolutivo di una visione cupa e oscurantistica del fasto iberico, leggendolo in chiave di testimonianza quasi immateriale di una peculiare relazione tra immagine e potere.

E prima che il grandioso affresco prefigurato dal curatore, fra storia delle collezioni e insigni documenti pittorici e scultorei, assuma consistenza e rilievo, a Galasso, a Muto (Capital y corte en la Nápoles española, pp. 63-76) e a Gaetano Sabatini (L’oro di Napoli. Miti e realtà dell’economia e delle finanze napoletane nella prospettiva spagnola, pp. 77-94) spetta il compito di offrire un panorama articolato del contesto, segnato da risorse straordinarie e palesi contraddizioni. Interessante è, ad esempio, il rapporto fluido che si instaura tra corte e capitale, con la prima impegnata a riconoscere alla seconda un rango negato dalla congiuntura politica e sorretto da una letteratura propagandistica che fonda il mito partenopeo. D’altro canto, si insiste sulla ricchezza di un territorio cui fa da contrappunto una moltitudine lacera, nell’idea che anche l’economia si avvale delle sue “rappresentazioni” per imprimere un corso agli eventi, per risollevare le sorti di una hacienda più volte sull’orlo del collasso irreversibile, condividendo così le strategie della variegata vita culturale del Regno.

Con il corpus documentale allestito da Eduardo Nappi radunando materiali dell’Archivio Storico del Banco di Napoli (I Viceré e l’arte a Napoli, pp. 95-128) entriamo nel vivo delle questioni artistiche. La fioritura di studi secenteschi a Napoli è strettamente collegata alla temperie neo-positivistica dell’ultimo trentennio, in cui si sono esplorati fondi archivistici, avvisi, gazzette nell’intento di ricomporre una trama di eventi e fenomeni in precedenza affidata troppo spesse alle cronache d’epoca ripubblicate tra Otto e Novecento o a studi canonici. Molto è stato fatto, ma molto resta ancora da fare, non solo per l’immanità dei giacimenti (oltre agli antichi banchi, si pensi solo alle schede notarili dell’Archivio di Stato di Napoli), ma per la sfida metodologica che le tracce che sistematicamente riaffiorano recano con sé, suggerendo prospettive di racconto e analisi di volta in volta diverse. Ed è rilevante come nel volume si ipotizzino percorsi molteplici dietro la linearità apparente dell’excursus cronologico, dall’affermarsi del dominio spagnolo alla prima decade del Settecento, quando il Viceregno passò sotto l’impero asburgico: colleccionismo y mecenazgo si intrecciano con la genesi di grandi opere o grandi cicli pittorici; si declinano in rapporto alle personalità più o meno spiccate dei rappresentanti della corona e alla vera e propria tecnica della «ostentación suntuaria» (cfr. David García Cueto, Los virreyes y el envío de obras de arte y objetos suntuarios para la Corona durante el siglo XVII, pp. 293-321); scandiscono l’impegnativo cursus honorum diplomatico, nel quale il rango vicereale arriva spesso a conclusione dell’incarico di ambasciatore presso la sede pontificia; creano relazioni privilegiate con artisti di statura eccezionale, la cui carriera sarebbe incomprensibile senza l’ombra di illustri protettorati; trapassano da generi convenzionali a soluzioni espressive “minori” o innovative, impostando una tradizione prontamente recepita e rilanciata dai circoli intellettuali della capitale (su questo ultimo punto, a parte le riflessioni sull’opera in musica, emblematico il contributo di Rodney Palmer su Viceregal dedicatees of neapolitan illustrated books (1670-1707) – pp. 411-421) . Il montaggio dei testi sembra alludere alle potenziali ricomposizioni di quelle storie, se solo si mutano le angolazioni e le curiosità dello sguardo.

 

È quel che risulta dagli echi numerosi disseminati nei saggi. Un ricco filone interessa le figure dei singoli viceré, interpreti sagaci di una funzione pubblica sulla quale provano a imprimere il suggello della propria individualità. Risultano decisive per le codificazioni del cerimoniale le missioni tra 1599 e 1601 che vedono coinvolto il VI conte di Lemos (come illustra Sabina De Cavi negli Ephemera del viceré conte di Lemos (1599-1601) - pp. 149-173), dove affiora l’importanza dell’asse Roma-Napoli per tutta la durata della dominazione spagnola. Alla religiosità inquieta del VII conte di Lemos si riconduce il lavoro di Manuela Sáez González sui Plateros que trabajaron para el VII conde de Lemos durante su virreinato en Nápoles (1610-1616) (pp. 195-213), mentre le sue curiosità letterarie e passioni accademiche sono alla base del saggio di Girolamo De Miranda (La vida es sueño: il mirabile viceregno napoletano di Pedro Fernández de Castro, settimo conte di Lemos, pp. 215-227), che indulge a tratti a toni narrativi ispirati e al fascino di corresponsioni teatrali fra le sale napoletane e le scene iberiche. Particolare attenzione si riserva a due personaggi eminenti quali Íñigo Vélez de Guevara y Tassis VIII Conte di Oñate e Gaspar de Haro y Guzmán VII Marchese del Carpio, sia per la qualità della loro formazione, sia per l’indubbio spessore che l’azione di governo e l’attività mecenatesca di entrambi rivelarono in due diversi momenti. Il primo, viceré dal 1648 al 1655, è impegnato in una problematica restaurazione dell’influenza e del prestigio iberico all’indomani di una potente fiammata rivoluzionaria: il lusso e gli investimenti in favore della “resurrezione” della corte, non disgiunte da misure di politica interna, si spiegano con l’urgente necessità di rafforzare modelli comportamentali ed equilibri fragili. Né va sottovalutata, al riguardo, la lungimirante apertura al melodramma, che, strumentale all’esibizione di una magnificenza creativa, assurge ben presto a cifra distintiva di una città e di un intero milieu (cfr. El resurgir de la corte. Fiestas y actos públicos durante la gestión política del conde de Oñate en Nápoles (1648-1653), a firma di Ana Minguito Palomares – pp. 323-338). Quanto al Marchese del Carpio, responsabile di una riforma monetaria che favorisce negli anni Ottanta una significativa ripresa economica, il suo collezionismo si dispiega fra disegni e stampe (come segnala con dovizia di dettagli Viviana Farina – cfr. pp. 339-362), quadri (è Leticia de Frutos Sastre a commentare la presenza di Luca Giordano nella sua raccolta – cfr. pp. 363-377), ma il suo gusto non manca di misurarsi con l’opera, tra pubblico e privato, mettendo a punto sistemi di finanziamento, sostenendo la hispanidad del repertorio e, soprattutto, ribadendo il carattere di propaganda e di immagine dell’evento scenico condiviso dall’aristocrazia locale. Se ne occupa con puntuali riferimenti alle fonti coeve Louise K. Stein (Opera and the Spanish family. Private and public opera in Naples in the 1680s – pp. 423-443), destando forse qualche nostalgia al pensiero che, nel volume, avrebbero forse meritato maggiore spazio le contaminazioni teatrali tra Spagna e Napoli che pure da anni sono fatte oggetto di studi mirati.

Nell’ottica puramente mecenatesca non sono però meno interessanti personaggi come il duca d’Alba, il conte di Monterrey e il conte di Santisteban, interlocutori di artisti come Ribera, Giordano, Schor, del Po. L’intraprendenza vicereale rimane pur sempre il vertice di una pratica di acquisizioni, scambi e investimenti per la quale di solito si dispone di riscontri più numerosi. A testimoniare la fitta circolazione di spunti iconografici, dipinti, o la densità dei contatti professionali sono quei contributi che fanno luce su situazioni meno eclatanti, ma indicative delle tensioni di un’epoca. È il caso del mercante Nicolò Radolovich e del conte di Benavente committenti di Caravaggio negli ultimi, tormentati anni della sua vita, tra soggiorni imprevisti, fughe e ritorni, in un intrigo di dati e ipotesi minutamente esposto da Antonio Ernesto Denunzio (Per due committenti di Caravaggio a Napoli: Nicolò Radolovich e il conte-duca di Benavente – pp. 175-193), o del funzionario Juan de Lezcano e della sua passione per la pittura maturata in ambiente romano, la cui collezione, descritta con onestà e scrupolo dal testamento, è il punto di partenza per un appassionante capitolo sull’arte caravaggesca e sui destini dei patrimoni secenteschi sulle rotte del commercio mediterraneo (come dimostra lo splendido saggio di Antonio Vannugli, Il segretario Juan de Lezcano e l’Ecce Homo del Caravaggio, pp. 267-276).

Il dialogo culturale fra i territori della Monarquía Hispánica si rivela non meno profondo se si analizzano progetti decorativi dai chiari fini propagandistici, a perpetua memoria dei successi politici e delle prerogative del sovrano, o se sul sovvenzionamento e sul sostegno fornito alle maestranze napoletani si costruisce una salda alleanza con il potere ecclesiastico fortemente radicato nel Viceregno. Episodi più circoscritti dimostrano anche il trascorrere delle poetiche all’interno di un continuo gioco di esibizione e di mitopoiesi, entro cui è lecito leggere il declino di una civiltà e l’insorgere di nuove inquietudini. Ma la capitale, simbolo e strumento del potere regio, è ormai avviata a sopravvivere del proprio mito.

España y Nápoles è un libro da consultare assolutamente per chi voglia inoltrarsi nella vivacissima, policroma realtà mediterranea del XVI e del XVII secolo, e non solo per i cultori di arti figurative. L’orizzonte mentale in cui convergono le committenze aristocratiche, i dibattiti poetici, la gestione delle produzioni e l’organizzazione del consenso è una chiave di lettura imprescindibile per ogni aspetto della vita culturale, sia che si consideri il mondo delle accademie, sia che si guardi alla letteratura dialettale, alla drammaturgia della santità, o alla teatralità diffusa tra piazze, sale pubbliche, palazzi nobiliari e residenze di provincia. Ed è utile acquisire la ricca messe di trascrizioni documentarie, di appendici e prospetti che corredano gran parte dei saggi, a riprova di interessi militanti che lasciano intravedere in molti casi ulteriori sviluppi e sistemazioni critiche.

Un’ultima notazione. Il bellissimo contributo di Galasso presenta squarci descrittivi assai pittoreschi, come è nello stile dello storico che, in occasione del suo ottantesimo compleanno, ha rivendicato il piacere di una scrittura che abbia il respiro della totalità. Un brano colpisce particolarmente:

 

Si spiega così l’aspetto da corte dei miracoli di una folla urbana […]. I termini con cui essa è indicata sono espressivi di questa condizione miserabile, che fa da sfondo colorito allo sfarzo della Corte regia e della vita aristocratica e borghese. […]. All’impressione di una eccezionale frequenza umana si accompagna quella di una degradazione sociale altrettanto forte. Si parla – con riguardo alla bellezza dei luoghi da tutti ammirata – di un «paradiso abitato da diavoli». In effetti, vi si riscontrano fenomeni anch’essi eccezionali di reazione alla emarginazione e di violenza. […] (p. 52).

Sembra di trovarsi, mutatis mutandis, di fronte a un reportage di tempi più vicini, e qui – con buona pace di Colomer – vengono alla mente le parole conclusive della Storia di Napoli di Ghirelli, l’auspicio che la città un giorno possa cessare di essere diversa. Grande e miserevole. Fascinosa e perversa. E se la «leyenda negra» non fosse un problema storiografico, ma un dolente esorcismo del destino?

 

 


di Francesco Cotticelli


copertina del libro

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