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Kommt herbei! Eintritt frei
Comoedianten sind da. Ich erzähle Euch die Geschichte vom Dario Fo-Theater in den Arbeiterbezirken

Mendelbaum, 2009, pp. 239, euro 27,39
ISBN 978385476-300-0

Nel 1979 Dietlind (Didi) Macher attrice viennese (ma originaria di Klagenfurt), fondò, assieme al marito Ulf Birbaumer e al regista e attore Otto Tausig, una compagnia intitolata al nome di Dario Fo, il Fo-Theater in den Arbeiterbezirken Wien, che verrà definito anche come GemeindeHOFtheater con un gioco di parole che chiarirò più in là. Nel trentennale di questa impresa, destinata a durare 15 anni, una studiosa del glorioso Institut für Theaterwissenschaft, ora Institut für Theater, Film und Medienwissenschaft (dove, purtroppo dal mio punto di vista, lo studio  dei Media e del cinema è diventato prevalente), Gabriele C. Pfeiffer, ha pubblicato un bel libro, ricco di cose e di documenti, di storie e di analisi, il cui lungo titolo (che riprende un passo del Mistero buffo di Fo) è una quasi esauriente presentazione del contenuto: Kommt herbei! Comoedianten sind da. Ich erzähle Euch die Geschichte vom Dario Fo-Theater in den Arbeiterbezirken. Eintritt frei, ( ossia: Venite avanti!  comici sono qui. Vi racconto la storia del Teatro Dario Fo nei quartieri dei lavoratori. Ingresso libero), Mandelbaum Verlag.

 

La denominazione della compagnia testimonia anzitutto della grande fortuna dell’autore-attore italiano, considerato, a questa altezza cronologica, il capofila e il maestro del nuovo teatro politico. In effetti, la metà del repertorio è costituita da testi di Fo e di Franca Rame – e si tratta sempre di testi posteriori al 1970, risalenti cioè agli anni in cui Fo aveva rinunciato ai circuiti ufficiali dei teatri di tradizione per allestire i suoi spettacoli esclusivamente nelle Case del Popolo e nei circoli ARCI. E si potrebbe quasi dire che questa rinuncia e questa scelta interessano Didi Macher ancor più che il contenuto drammatico e politico dei testi che si apprestava a rappresentare. Lei stessa infatti ne segue l’esempio, rinunciando alla prestigiosa scrittura dello Josefstadttheater per portare, come diceva, il teatro a coloro che non vanno a teatro.

                                                      

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Nicola Filippelli e Hertha Schell in "Die Wirtin"


Da questo punto di vista il teatro viennese appare più radicale di quello del Maestro preso ad esempio, rifacendosi piuttosto al teatro politico più antico, quello che si sviluppò soprattutto in America negli anni Sessanta, con la San Francisco Mime Troupe di Ronnie Davis o il Teatro Campesino di Louis Valdez (se non addirittura ai vari teatri agit-prop e ‘proletari’, attivi in Unione Sovietica e poi nella Germania di Weimar durante gli anni Venti e Trenta), poiché se Dario Fo aveva scelto il circuito alternativo, ma pur sempre in qualche misura istituzionalizzato delle Case del popolo, Didi Macher intendeva portare i suoi spettacoli direttamente nei quartieri abitati dai lavoratori, nei cortili dei loro condomini, come sottinteso nel secondo titolo della compagnia, GemeindeHOFtheater, che si potrebbe tradurre come “teatro dei cortili della comunità”, se non addirittura come “teatro di corte della comunità”, con una paradossale allusione al teatro delle corti principesche.

 

Una scelta, questa, resa possibile dalla particolare struttura urbanistica e architettonica dei quartieri operai di Vienna, con i suoi grandi condomini edificati attorno a vasti cortili che, nell’intenzione dei progettisti, dovevano avere la funzione di creare uno spazio comune, comunitario, dove potessero aver luogo gli incontri e la vita sociale degli abitanti, ciò che rendeva questi complessi abitativi dei veri “falansteri”, nell’accezione positiva che Charles Fourier aveva dato a questo termine. Ed è forse seguendo le indicazioni che il grande utopista aveva formulato circa un secolo avanti che essi furono concepiti dagli architetti della Rote Wien, della Vienna rossa, realizzata dalle amministrazioni socialdemocratiche degli anni Trenta.

 

È strano che Didi Macher e Ulf Birbaumer abbiano scoperto questi complessi architettonici visitando un mostra alla Biennale di Venezia, ma è importante il fatto che essi abbiano immediatamente compreso il senso profondo che la loro azione teatrale poteva assumere nel “portare il teatro” ai cittadini, ai lavoratori, anziché invitare cittadini e lavoratori a teatro: non doveva trattarsi solo di allargarne gli orizzonti culturali e di stimolare la riflessione politica, ma anche, e forse in primo luogo, di contribuire a ridar vita a delle comunità che la nuova civiltà televisiva aveva messo in pericolo. D’altra parte, sotto il profilo più semplicemente storico-teatrale, essi avrebbero potuto riferirsi a un precedente socialmente diverso, ma teatralmente simile: quello di corrales (cortili appunto)  in cui nel Siglo de oro vennero rappresentati i più importanti capolavori della drammaturgia spagnola.

                       

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Nicola Filippelli (Marchese von Forlinpopoli) in "Die Wirtin"


 

Ma non è questo l’unico riferimento storico presente nella prospettiva teatrale del Fo-Theater. Non ci soffermeremo, in questa sede, l’utilizzo dei personaggi e dello stile recitativo della commedia dell’arte – che era già stato dei citati Ronnie Davis e Louis Valdez – che non ebbe luogo negli spettacoli ispirati da Fo, ma in quelli basati su un rifacimento della Locandiera (Die Wirtin dell’austriaco Peter Turrini) o nella complessa commedia dello svizzero H.J. Schneider, Herz+Leder, Hund+Schwein (cuore+fegato, cane+porco). Così come sarà sufficiente soltanto accennare al fatto che, quando riuscirono ad acquistare un camion per portare i loro spettacoli dal Sigmund Freud-Hof al Karl Marx-Hof, per i membri della compagnia fu fin troppo ovvio chiamarlo “carro di Tespi”. Per sottolineare piuttosto come Gabriele C. Pfeiffer abbia tenuto, fin dalle prime pagine del libro, ad attribuire a Didi Macher il titolo di Prinzipalin. Prinzipal è colui che riunisce le funzioni di capocomico e di impresario: Prinzipale furono alcuni fra i più grandi attori dell’età eroica del teatro tedesco, come Konrad Ackermann, Ludwig Schröder, Heinrich Koch. Ma di Prinzipalin (Prinzipal donna) se ne ricorda una sola, ma decisiva: quella Caroline Neuber che, compiendo un percorso inverso a quello della sua moderna erede, aveva cercato di nobilitare il teatro tedesco estromettendone le farse di Hanswurst. Ma in verità anche Didi Macher ha cercato una nuova nobiltà del teatro, un nuovo “teatro di corte”.

 

Come enunciato nel titolo, il libro della Pfeiffer, racconta nei dettagli la storia di questo strano, in qualche misura unico teatro: descrive il ruolo e la funzione dei diversi collaboratori, il modo con cui vennero affrontate e superate le difficoltà organizzative, tecniche ed economiche, oppure quelle suscitate dalle obiezioni di qualche politico, le scelte di un repertorio nel quale entrarono, assieme alle prevalenti opere di Fo-Rame, autori come l’ucraino Jura Soyfer e il turco Nazim Hikmet, ma anche testi direttamente commissionati a giovani autori austriaci. Testi il più delle volte legati a motivi di attualità (il carovita, la condizione femminile, l’immigrazione), ma spesso anche a problematiche di ordine più generale, come è il caso dei lavori di Soyfer e di Nazim Hikmet. Le scelte di repertorio derivavano dunque in primo luogo dall’ispirazione politica del gruppo e della sua Prinzipalin, ma ovviamente erano condizionate anche dai problemi tecnici derivanti dalla prima missione che si erano posta: portare il teatro quasi nelle case dei lavoratori.

 

Con ciò, il Fo-Theater non fu mai né un teatro agit-prop, né un teatro sperimentale. In fondo esso potrebbe essere paragonato alle compagnie di giro dell’Ottocento italiano (ma anche del tardo Settecento tedesco!), con la differenza che il suo “giro” copriva distanze certo molto più brevi – essendo sostanzialmente limitato alla sola Vienna – ma gli spostamenti erano infinitamente più numerosi, di fatto quotidiani: come venditori ambulanti, attori e tecnici dovevano smontare il loro palco ogni sera per trasportarlo da questo a quel cortile, da questa a quella fabbrica. Da ciò, ma anche dal fatto che la sua era anche artisticamente la figura più rilevante, le numerose (quasi) solo-performances di Didi Macher – soprattutto quelle tratte dai monologhi femministi di Franca Rame.

 

E anche se, va ricordato, l’unica solo-performance assoluta –  Menschenlandschaft (Il paesaggio degli uomini) di Nazim Hikmet, dove Didi appariva come “narratrice”, accompagnata solo da un piccola orchestra, a recitare, indossando diversi costumi e personaggi, il lungo poema dell’autore turco – fu eseguita soltanto in veri teatri o comunque in spazi al chiuso (per ‘sole’ 25 repliche complessive); d’altra parte la rappresentazione più impegnativa dal punto di vista spettacolare –  Der Weltuntergang (La fine del mondo) di Jura Soyfer, che “rientra nella migliore tradizione delle apocalissi austriache” ed è in qualche modo paragonabile, almeno per le dimensioni, a Die letzten Tage der Menscheit (Gli ultimi giorni dell’umanità) di Karl Kraus – fu invece portata in giro per tutti i cortili della Rote Wien. A dimostrazione del fatto che non sarebbero state le difficoltà tecniche a permettere eccezioni alla missione, e si potrebbe quasi dire all’ideologia, che la Prinzipalin aveva imposto alla sua compagnia.

 

Il volume è corredato da esaurienti elenchi dei luoghi e delle date in cui ebbero luogo gli spettacoli, dei collaboratori (registi, attori, musicisti) che si alternarono a completare il gruppo dei soci fondatori, dei riscontri della stampa. Oltre che da un buon numero di illustrazioni che permettono di farsi un’idea più concreta delle forme e dei modi in cui furono realizzati alcuni spettacoli, ma anche della personalità artistica della prima attrice.



di Cesare Molinari


copertina

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