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Segnocinema, anno XXIX, n. 157, maggio-giugno 2009
Rivista cinematografica bimestrale

n. 157, anno XXIX, p. 80, € 6,00
ISSN 0393-3865

Un pensiero attraversa questo numero di Segnocinema, quello di (ma soprattutto a) Vincenzo Buccheri, storico redattore della rivista, nonché docente universitario all’Università di Pavia, prematuramente scomparso il marzo scorso all’età di 38 anni, non solo per la bellissima e appassionata dedica di Andrea Bellavita, che apre la rivista, ma soprattutto per il modo toccante ed assolutamente naturale con cui un’improvvisa assenza è stata trasformata in una tangibile presenza.

Il difficile compito di dover "ripartire" è affidato a Roy Menarini che riprende una questione posta proprio da Buccheri (si vedano i numeri 154, 154, 155) sullo stato dell’arte cinematografica, o meglio delle teorie del cinema. Nel suo Il cinema e le teorie, Menarini si interroga sul rapporto tra il cinema e i new media, facendo una panoramica dei testi teorici che si preoccupano di individuare il ruolo del cinema (e della sua storia) all’interno di questa, non ancora ben definita, nuova categoria mediatica. Partendo da Il linguaggi dei nuovi media di Lev Manovich, (al quale viene riconosciuta un’accurata analisi, anche storiografica, del problema, ma una visione cinematocentrica dei new media non altrettanto convincente), passando per gli scritti di Jay David Bolter, Richard Grusin e Henry Jenkins (con le loro riflessioni su film popolari come Strange Days, lo scontato Matrix e la meno scontata trilogia dei Pirati dei Caraibi), Menarini approda, come aveva già fatto Buccheri, al libro di David Rodowick Il cinema nell’era virtuale, riconoscendogli il valore di ideale prosecuzione de L’occhio del novecento di Francesco Casetti. Un occhio del duemila quello di Rodowick, che rileva come, sebbene la tecnica abbia spostato lo statuto del cinema "da medium fotografico a medium digitale", questi sia ancora "riconosciuto come tale da una moltitudine di agenti sociali e comunicativi, oltre che da numerose comunità di spettatori", delle quali raccoglie i bisogni di strutture narrative solide all’interno di "esperienze che di narrativo hanno poco o che, al contrario, sono infinitamente narrative in senso iper-mediale". Il cinema, insomma, avrebbe verso i new media, più o meno la stessa funzione che il romanzo ottocentesco ha avuto alla nascita del cinema stesso, si troverebbe ad essere un corto circuito tra istanze divergenti: contemporaneamente punto di riferimento ma anche di passaggio per la definizione di un nuovo linguaggio.

Bacco, tabacco e genere di Paolo Cherchi Usai è un intervento su uno degli argomenti più "scivolosi" della critica cinematografica: il genere. Sebbene i "film di genere" siano una specie di bussola per il pubblico, questa bussola viene irrimediabilmente persa quando un teorico tenta di definirli. Niente è più transgender di un film, anche quelli che apparentemente più classificabili possono presentare dei risvolti inaspettati (geniale la visione di Love Story come film horror, in quanto "riflesso del nostro terrore della solitudine"); ogni analisi approfondita porta necessariamente verso forze centripete che rendono particolarmente arduo il compito di strutturare una teoria efficace sul genere cinematografico. Cherchi Usai prende ad esempio due dei generi più forti prodotti dal cinema: il western e l’horror. Mentre del primo non si è mai arrivati a spiegare le effettive ragioni del declino, il secondo sembra l’unico genere che, basandosi su regole certe e scansioni narrative precise, continua ad avere un pubblico affezionato, fidelizzato proprio dal particolare tipo di emozioni che questi film fanno provare, come quei palati forti che amano la cucina fortemente speziata. Per tentare di definire il genere non restano che due strade: quella del big bang, ovvero la casualità data da un film "evento" che apre un filone produttivo nel quale altri si inseriscono, "creando" così un genere, quasi dal nulla (chiaramente l’assenza di solide fondamenta, porta ad una incertezza su "dove e come il genere andrà a finire" ed il western sarebbe la vittima più illustre di questo sistema) e quella, cosiddetta, "autoriale", che da Hitchcock a Kubrick porta oggi a Michael Mann, ovvero il trattamento del genere per "fini ulteriori", che, comunque, si basa sempre sul tradire (nel bene o nel male) le aspettative di certi spettatori, fino ad arrivare a deludere quello che Cherchi Usai chiama "lo spettatore anti-intellettuale".

Lo speciale A qualcuno piace corto ha il grandissimo merito di riportare l’attenzione su quella particolare forma filmica che è il cortometraggio. È ancora Cherchi Usai a sottolineare come il cinema sia nato "corto" e che, per almeno quindici anni (dal 1895 al 1910), i film erano "brevi", non solo per limiti tecnici, ma soprattutto per precise esigenze di mercato, in quanto il pubblico stesso richiedeva spettacoli che variassero continuamente in modo da non annoiarsi. Riflettere sul cortometraggio è quindi riflettere sulle origini stesse del cinema. Ars brevis, vita longa di Adriano D’Aloia, si sofferma invece su quei corti che hanno contribuito in maniera determinante alla storia del cinema: Ballet Mécanique di Fernand Léger, Un chien andalou e L’age d’or di Luis Buñuel, À propos de Nice di Jean Vigo, tanto per citarne solo alcuni, sono opere di importanza basilare per il loro grande potenziale innovativo ed hanno influito nell’evoluzione della settima arte molto più di tanti lungometraggi a loro coevi. Passato, presente, cinema "privato", film a episodi, animazione, You Tube, niente viene tralasciato in questo speciale sul cortometraggio, la cui conclusione è Bonus attraction, ovvero il "corto della vita" di alcuni dei collaboratori della rivista, che diventa una specie di singolare catalogo di titoli da dover assolutamente recuperare (magari semplicemente cercando su You Tube o Google Video).

Il numero continua con le consuete rubriche di analisi e segnalazioni, tra le quali è assolutamente da evidenziare Segno (altro)cinema, che indica siti internet dove è possibile vedere e scaricare (legalmente) film e video davvero interessanti (esilarante il materiale di un gruppo livornese I Licaoni che si trova su www.licaoni.it). Tra le rubriche meritano una segnalazione Actor Segno di Cristina Jandelli (che sviluppa una bellissima analisi dei "corpi attoriali" di Leonardo Di Caprio e Kate Winslet, che si ritrovano insieme in Revolutionary Road, undici anni dopo il Titanic) e Segno Sound di Paola Valentini (che si concentra sulle musiche de Il petroliere di Paul Thomas Anderson e sulla singolare quanto efficace scelta del chitarrista-polistrumentista dei Radiohead Jonny Greewood come compositore).

Un’ottima conclusione mi sembrano le parole con cui Andrea Bellavita chiude la sua dedica iniziale a Buccheri: "Con Vincenzo è bello andare al cinema, e uscire dal cinema: per parlare del film e di tutto il resto, per incazzarsi, per prendere in giro e per prendersi in giro. Per ridere, perché in fondo quello che facciamo non è una cosa seria". Si noti l’uso del presente.

Luigi Nepi


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