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Teatro religioso e medievale



Elina Gertsman, Visualizing Medieval Performances. Perspectives, Histories, Context Aldershot, Ashgate, 2008, 348 pp., $ 99,95.
ISBN 978-0-7546-6436-9

Jassica Brantley, Reading in the Wilderness. Private Devotion and Public Performance in Late Medieval England, Chicago & London, University of Chicago Press, 2007, 463 pp., $ 45,00.
ISBN 978-0-226-07132-9.

Uno dei temi più interessanti che la critica storica sta dibattendo riguarda la ridefinizione delle dinamiche rappresentative nella cultura del Medioevo cristiano; tema che chiama in causa il complesso rapporto tra parola scritta e parola detta, immagine e azione, e che sembra rimandare ad un concetto di visione intimamente legato alla dimensione performativa dello sguardo, laddove “guardare” è attività efficace tanto sul piano del ‘sentire’ (cioè provoca emozioni, gli affectus) quanto del ‘fare’ (cioè ha conseguenze nella vita concreta, gli effectus). 

 Il problema viene posto a partire da due premesse di metodo. In primo luogo, si accoglie un approccio interdisciplinare ai secoli medievali, che sin dagli anni Novanta del Novecento (The Theatre of Medieval Europe, ed. E. Simon, Cambridge University Press, 1991) ha determinato un deciso cambiamento di rotta nel contesto degli studi teatrologici, smontando i principi scientifici acquisiti nella prima metà del secolo e ridiscutendo la natura stessa delle fonti sulla base del binomio forma e funzione (in merito al quale furono fondamentali gli studi di Belting, Baxandall, Schmitt e Le Goff). Si allora comprese che la forma di qualsiasi documento – come fosse fatto e di cosa parlassero un manoscritto o un dipinto o una scultura etc. – era funzionale tanto allo scopo per cui era stato realizzato – a cosa dovesse servire – quanto al destinatario a cui era rivolto. In questo senso la rilettura di documenti e fonti secondo più punti di vista e in relazione a diversi ambiti di studio ha chiarito le profonde connessioni tra pratiche apparentemente separate, consentendo di svelare i legami tra i meccanismi retorici della scrittura e quelli della lettura, ma anche di comprendere che le tecniche della memoria sono implicate nel processo di conoscenza e in quello di restituzione del sapere, tanto quanto nella costruzione delle immagini e nella realizzazione delle rappresentazioni sceniche. In  entrambi i casi si tratta di ‘teatri del ricordo’. In essi la ri-presentazione è infatti una vera e propria ‘scena della memoria’ che consente relazioni, attivando meccanismi di compartecipazione e ricorrendo spesso all’uso dell’exemplum, la cui efficacia narrativa è nota già a partire dal XII secolo.

 

Sul secondo fronte si cerca di comprendere se la definizione di performance – come atto trasformativo che incide su un pubblico mai passivo e che offre una strada per produrre significato e per affermare valori individuali e collettivi – possa essere valida anche per la cultura medievale, tenuto conto della vastità delle attività che il termine abbraccia e delle diverse declinazioni teoriche che il termine ha avuto in distinte branche disciplinari. Da un punto di vista più specificatamente teatrologico le connessioni tra performance, lettura meditativa e arte della memoria sono ormai note agli studiosi internazionali, così come è noto l’ampio uso della metafora teatrale nel Medioevo: il ‘teatro’ è più uno strumento gnoseologico e retorico che uno strumento rappresentativo in senso tradizionale.

 

In questo contesto di studi si colloca il bel volume miscellaneo curato da Elina Gertsman, Visualizing Medieval Performances. Perspectives, Histories, Contexts (Ashgate, 2008) che intende raccogliere studi sui testi, sulle immagini e sul teatro, connettendo tra loro diverse pratiche: della lettura, dell’ascolto, dello sguardo e dell’azione. In altre parole ci si occupa di diverse manifestazioni e significati di performance nel Medioevo, collocandone la definizione nella complessa rete che lega ciò che è proprio tanto dello spirito come del corpo, della vista come dell’udito, del testo come della parola. L’interdisciplinarietà del lavoro viene organizzata in quattro parti, ognuna riservata ad un differente campo di indagine, ma è concepita anche come un dialogo tra i singoli contributi che spesso trattano argomenti correlati e offrono diversi punti di vista su temi comuni.

 

La prima parte è dedicata al rapporto tra performance e visione, discutendo la relazione tra spazi performativi e pubblico. Ecco allora un saggio di Christina Maranci sulla relazione tra le immagini che decorano le pareti di antiche chiese armene e le processioni rituali che vi si svolgevano, accanto al lavoro di Richard K. Emmerson, che, invece, si occupa del portato performativo dell’Apocalisse di San Giovanni, analizzando tanto la visione mistica in sé quanto la sua restituzione testuale. Mentre Pamela Sheingorn legge un manoscritto miniato francese del XIV secolo (Pélerinage de Jésus-Christ) dal punto di vista del suo fruitore, interrogandosi circa gli effetti di una lettura performativa stimolata dall’unione di testo, immagini, azioni, in grado di coinvolgere non solo la mente ma anche e soprattutto il corpo, Elina Gertsman approfondisce il concetto di un coinvolgimento psicofisico nella visione in relazione alle azioni rituali che riguardavano le statue reliquiario delle Vergini Oranti, in una reciprocità di sguardo e di azione, che presuppone l’interazione tra l’immagine e lo spettatore.

 

Nella seconda parte del volume si mettono in connessione le esperienze visive della preghiera con le performances della devozione. L’attenzione è piuttosto rivolta alla dialettica tra spazi interiori ed esteriori, ossia sulla liminalità tra performances spirituali e performances devozionali. Esempi di performance spirituale sono le omelie di Hildegarda, delle quali Beverly Mayne Kienzle studia la capacità di provocare la “trasformazione“ degli uditori, oppure la pratica spirituale di Teresa d’Avila, studiata da Mary Frolich. Sul piano devozionale, invece, è molto interessante lo studio di Carolyn Muessig attorno alle estasi mistiche provocate dalla meditazione della Passione di Cristo. L’ estasi qui è intesa come performance poiché provoca l’identificazione mimetica del meditante con il soggetto della meditazione (il Cristo doloroso e morente): il pubblico, di conseguenza, non è spettatore di una finzione ma testimone di un fatto nel quale è coinvolto.

 

La terza sezione del volume si occupa delle pratiche performative socio-politiche tese ad affermare e rimarcare identità comunitarie e del sé: ad esempio la cerimonia ebraica di investitura dell’Esilarca analizzata da Jonathan Decter, oppure l’entrata trionfale di Enrico II e Caterina del Medici a Rouen studiata da Rebecca Zorach.

 

La quarta ed ultima sezione del volume è finalmente dedicata alla performance intesa in un modo più tradizionale: quella praticata nel teatro, nella danza e nella musica. Emerge un legame profondo tra la cultura mnemonica del Medioevo e la performance, sia essa mentale o fisica. Glenn Ehrstine, in particolare, analizza alcuni Passion plays tedeschi (quello di Donaueschingen e quelli, più tardi, di Lucerna e di Heidelberg) e cerca di comprendere quale sia il significato del termine figura al loro interno. La studiosa dimostra che la pratica dello spazio nei passionspiele citati rimanda esplicitamente ai trattati mnemotecnici medievali. Le figurae sono l’incarnazione di un concetto che si appoggia sulla struttura mnemonica propria della meditazione per immagini della Passione. Figura, allora, sarebbe un segno fisico che indica una realtà spirituale che consente di vedere l’invisibile, attuando quello che Bob Scribner (Popular Piety and Modes of Visual Perception, «Journal of Religious history», 15 (1989), 4, pp. 448-469) ha definito lo “sguardo sacramentale” proprio del Medioevo: lo spettatore partecipa della verità attraverso l’immagine osservata.

 

In sintesi il volume pone in luce una radicale reciprocità tra pratiche mnemoniche e performances, reciprocità che sembra poggiare sulla condivisone di un comune schema di immagini, azioni e parole, sulla base del quale viene ordinato lo sguardo. Ciò che, però, è degno di nota è la qualità dello sguardo medievale: uno sguardo che mette in atto i meccanismi della memoria e che richiama, rendendolo presente nel ricordo, l’oggetto guardato, permettendo così di entrare in relazione con esso. In alcuni casi, tuttavia, le modalità della visione nel Medioevo possono spingersi ben oltre e portare al parossismo il concetto di presenza memorativa. In questo caso si allude al mistero della presentificazione eucaristica: l’oggetto dello sguardo non è più solo ri-attuato nella memoria, ma si fa addirittura carnalmente reale, vero, vivo qui ed ora. Questa dimensione del vedere è di particolare interesse per le dinamiche della messa in scena poiché, esasperando il processo memorativo, sposta il principio di realtà pericolosamente verso il falso. 

 

Proprio del problema della visualizzazione si è occupata Jassica Brantley, Reading in the Wilderness. Private Devotion and Public Performance in Late Medieval England, (University of Chicago Press, 2007) studiando  gli stretti legami che intercorrono tra lettura e performance. La Brantley analizza una fonte precisa - il manoscritto Additional 37049 della British Library - che raccoglie testi a cui sono collegate immagini. Quel manoscritto, di probabile committenza e destinazione certosina, testimonia l’importanza delle immagini nella pietà tardomedievale e mostra in modo chiaro la radice performativa della lettura devozionale del tempo.  Spesso citata in relazione a studi d’arte, la fonte, proprio per la sua natura miscellanea, non era mai stata considerata nella sua interezza, né era mai stata intesa come documento organico. Invece è molto interessante proprio per la sua forma di imagetext: un testo-immagine in cui la parola è inscindibile dall’immagine, quasi incarnata in essa. La serrata combinazione di visivo e verbale esige una precisa modalità di fruizione che la studiosa definisce una ‘lettura performata’, per la quale colui che legge e vede è allo stesso tempo spettatore e attore. Tale meccanismo è poi approfondito e reso radicale dalla materia devozionale del manoscritto che è l’imitazione della Passione di Cristo, intesa come azione da attuarsi concretamente, in spirito e corpo, e che implica la completa mancanza di distinzioni tra colui che osserva-legge e ciò che è guardato-letto: in poche parole si partecipa di ciò che si legge, si agisce ciò che si vede.

 

Sullo sfondo del manoscritto inglese è fortissima l’influenza di molta letteratura medievale pensata per essere messa in atto nell’esperienza della meditazione. Una tradizione che ribadisce da un lato la centralità della natura visiva del testo per la cultura medievale e dall’altro, e in modo ancora più significativo, la necessità che il testo-immagine sia agito nelle mente di colui che lo legge-guarda. Ne deriva uno sguardo fisso e allo stesso tempo in movimento: fisso sulla pagina ma in movimento dentro alla pagina come dentro a una scena. Questo ha suscitato l’interesse della critica storica circa l’influenza che il dramma sacro ebbe sull’arte: e quest’ultima diventa la testimone della pratica performativa. La Brantley invece, anche nel rispetto del dato storico e meramente cronologico, capovolge la relazione, ponendo la cultura visiva alla base della composizione scenica: in definitiva è meno sostenibile scientificamente pensare che sia il ricordo di un dramma agito ad influenzare la lettura di un testo, piuttosto che ipotizzare una scena mentale nata da una lettura performativa. Fondamentale è notare che la lettura del codice attua un meccanismo di ripresentazione i cui effetti esperienziali ed emotivi sono quelli della performance drammatica.

 

In conclusione tanto la raccolta di saggi curata dalla Gertsman quanto lo studio della Brantley pongono in causa due ordini di problemi. Da un lato la discussione attorno allo statuto della rappresentazione e dunque al significato e al ruolo dell’immagine all’interno della cultura cristiana; dall’altra il valore della visione come atto performativo, che innesca un meccanismo di ritorno: ogni sguardo viene ricambiato ossia ‘riguardato’ ed ogni azione presuppone una relazione. Dunque visione e performance nel Medioevo sono inestricabilmente legate da una comune dimensione esperienziale: questa è alla base del concetto stesso di memoria e è intrinseca a quello di dramma. Una prospettiva scientifica dalla quale non sarà possibile prescindere nel campo degli studi storici e teorici del ‘teatro’ sacro medievale.

di Carla Bino


Giotto, Il compianto del Cristo morto

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Jassica Brantley, Reading in the Wilderness. Private Devotion and Public Performance in Late Medieval England


    

 

 
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