drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti

cerca in vai


Beatrice Alfonzetti

Drammaturgia della fine. Da Eschilo a Pasolini


Roma, Bulzoni, 2008, pp. 200, € 18,00
ISBN 978-88-7870-289-9

Il libro di Beatrice Alfonzetti, apparso nella Collana del Dipartimento di italianistica e spettacolo (La Sapienza, Università di Roma), prosegue e approfondisce un filone di ricerca sui finali nella narrativa e nel teatro intrapreso anni or sono da alcuni studiosi italiani, tra cui Giulio Ferroni e la stessa Alfonzetti. Incentrati su quello che rappresenta il momento culminante della scansione del testo letterario e drammaturgico, gli scritti di questi autori, o di altri presenti nei volumi collettanei da essi curati, apportano un contributo su quell’aspetto piuttosto singolare che è il finale di un’opera – come lo sono state del resto le ricerche sugli incipit, speculari a queste altre. Finale mai considerato isolatamente bensì investigato nel suo contesto storico, a partire cioè da epoche e forme canoniche, da paradigmi letterari, politici, morali, antropologici, dentro e oltre i quali sono sorte determinate strategie autoriali, talvolta apertamente trasgressive della norma, talaltra capaci di aggirarla con un paradosso.

Come tutti i lavori seri e scientifici questo libro nasce da un’esigenza di chiarezza, e dovendo fare innanzitutto piazza pulita dei luoghi comuni più diffusi sul finale, si rivolge al lettore con una constatazione che suona come un avvertimento: "Nel parlare del finale, infatti, c’è un pregiudizio principe che ci perseguita, quello di riferirci quasi esclusivamente al suo contenuto […] La domanda sul ‘come va a finire’ prende il sopravvento sui rilievi di carattere formale e retorico e ci si ritrova a fare considerazioni critiche a partire da semplici contenuti, che in sé poco indicano della complessa architettura dei finali"(p.11). La chiusa, che a partire dalla Poetica di Aristotele è stata considerata "la sequenza di maggior rilievo", o più genericamente "il banco di prova dell’abilità di scrittura", richiede dunque nella "scelta di assumere la centralità del finale" un supplemento di analisi e di lettura critica dei testi. Giacché, come precisa l’autrice nella Premessa, "anche la lettura del finale è un atto interpretativo, un esercizio di ermeneutica critica" (p.7).

Non sembrando esaustivo circoscrivere il finale alle ultime battute di un testo, sarà lecito, anzi necessario porsi, come fa l’autrice, la domanda: "Dove inizia il finale?" La proposta che ne consegue è di adottare per la tragedia, dove fine e morte in fondo si equivalgono, uno schema tripartito, per poter distinguere così il finale incipitario – adottato da Euripide e in uso nella drammaturgia cinquecentesca, che con "il racconto dell’antefatto, l’anticipazione del finale istituisce così un ponte fra inizio e fine dell’azione" (p.17) – da quello circolare, nel quale il chiudersi del cerchio con delle morti tragiche, sul modello della Medea di Seneca, diventerà una prassi ricorrente nel Seicento; per diversificarlo infine dal settecentesco finale inaspettato, più vario negli esiti, che abolendo l’intervento divino e il prodursi dell’azione "sul piano strettamente "storico" cioè umano (Maffei)" (p.29), ha sostituito i prologhi e i cori, cioè "il codice oratorio e narrativo con quello dialogico" (p.29).

Ma esiste anche un lieto fine nella favola tragica, e ad esso l’Alfonzetti dedica un intero capitolo per motivarne le finalità: le quali possono essere ad esempio di ordine religioso o morale, quando a trionfare è la "virtù ricompensata o lodata" (p.41); oppure di natura politica, poiché "generalmente legate a committenze di corte" (p.36), o perché adombrano nobilmente, nel gesto definitivo di un personaggio, la figura di un regnante o di un potente. E qui entra in gioco un’altra delle questioni nodali di cui l’autrice si è occupata in passato fornendo contributi eccellenti sia sul piano teorico-estetico sia su quello storico: il divieto della morte in scena. Divieto concernente la rappresentazione della catastrofe – esempi sono i duelli all’ultimo sangue, la vista del matricidio, del patricidio, del tirannicidio – cui si può ovviare ricorrendo al racconto nel quale viene a inscriversi l’apice tragico, che in tal modo contribuisce a mitigare o a occultare il gesto ("In un senso molto generale si può affermare che alla narrazione della catastrofe è consentito ciò che alla visione è interdetto", p.51). Non del tutto tabuizzata è invece la morte volontaria, il cui accesso alla scena è consentito, seppure con qualche limitazione normativa: la sua ammissione deve comportare "il corredo della parola, l’assenza di sangue cioè la morte per veleno e l’immediato allontanamento del corpo estinto" (p. 63). Grato a un talento ribelle come quello dell’Alfieri, è il finale tragico da lui inaugurato nella sua nuova veste, che procede a testa alta recuperando "la morte visiva, per secoli consumatasi dietro la scena", ora non più interdetta, ma che "anzi sembra richiedere la scena persino in nome di ragioni estetiche" (p.71).

La contrazione del dramma nell’atto unico, verso la fine del diciannovesimo secolo, interviene sulle sue componenti strutturali assegnando un valore diverso all’epilogo. Qui "scioglimento e catastrofe si sono dilatati a tal punto da occupare tutto lo spazio drammatico" (p.93). Ai paraventi e alla nuova convenzione che non propone più "l’illusione di realtà, ma quella di irrealtà (p.108); a coltelli e rivoltelle quali oggetti micidiali sul cui uso nel finale viene focalizzata l’attenzione; alle risate e alle interruzioni, alle attese e alle sparizioni che intervengono drammaturgicamente marcando o dilatando l’epilogo del dramma, e alla circolarità del continuare/ricominciare, caratteristica di tanto teatro italiano ed europeo del dopoguerra, sono intitolati altrettanti capitoli di questo studio magistralmente condotto, che unisce alla sapienza e alla compiutezza dell’analisi l’eleganza di una prosa che anche nelle argomentazioni più complesse non perde mai il suo smalto. Tanto più vogliamo scusarci, sia con l’autrice che con il lettore, per aver colpevolmente sacrificato, in questa nostra breve e schematica segnalazione, la ricchezza di suggestioni labirinticamente suscitate dal testo.

di Franco Sepe


copertina del volume

cast indice del volume


 



 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013