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Paolo Poli

Siamo tutte delle gran bugiarde
Conversazione con Giovanni Pannacci

Roma, Giulio Perrone, 2009, pp. 95, € 11,00
ISBN 978-88-6004-139-5
Il libro Siamo tutte delle gran bugiarde (di cui lo stesso Poli fa notare la presenza di un errore nel titolo: dovrebbe infatti essere Siamo tutte delle grandi bugiarde, dato che gran, in toscano, si usa solo al singolare) è un colloquio fra Giovanni Pannacci e Paolo Poli.

E tanto per cominciare, diciamolo pure, Paolo Poli è un genio del teatro. Dato che però lui odia le definizioni, non aggiungeremo altro. Non staremo a dire che è un funambolo della parola, un grande uomo di cultura, «un soave, ben educato e diabolico genio del male» (Natalia Ginzburg), un mefistofelico cherubino, un «fiorellino inclassificabile» (Tullio Kezich) e irridimensionabile nelle strutture teatrali esistenti, un cabarettista fantasista trasformista immoralista parodista di efebica eleganza, un giullare travestito da gentiluomo dell'Ottocento, un gentiluomo dell'Ottocento travestito da giullare a sua volta travestito da nobildonne gentildonne donne donnette donnacce, una vispa Teresa posseduta da un Franti, un artista, un incendiario, un perelà.

Si sa che, una sola persona a fargli da pubblico, e Poli comincia, con la consueta grazia e senza mai essere volgare, a parlare, declamare, ricordare, e nessuno lo ferma più. E questo è il bello del libro (e più bello ancora sarebbe vederlo e ascoltarlo parlare, declamare e ricordare). Le tipiche polidivagazioni (piene di digressioni e provocazioni). E scusate se è poco.

Sul primo amore: «a cinque anni una mia zia mi portò al cinema a vedere King Kong. Non ti dico le urla e gli strepiti quando lo scimmione venne ammazzato. Quello è stato il mio primo innamoramento. Allora la zia mi regalò uno scimmiotto peloso che io mi portavo a letto. Ovviamente da lì in poi ho continuato». Sulle prime letture: «la lettura è difficile per un bambino, perché deve fare lo sforzo di vedere le immagini, ma io a otto anni lessi un libro pornografico che mi prestò un amico. Sai, a scuola tutto accade. Non ci capivo niente, ma mi piaceva! Dicevo: "Mamma, è un libro porcellone e lo voglio leggere tutto". "Va bene" rispondeva la mia mamma "ma non mi pare un libro da bambini". "Lo so, infatti non ci capisco nulla, ma mi piace moltissimo e lo voglio leggere tutto!". "D'accordo" assentiva lei paziente "ma quando lo hai finito restituiscilo a chi te lo ha dato, perché non sono libri da tenere in casa"». Sulle primissime recite, a Firenze, ai tempi del liceo. Sulla partenza per Roma e il debutto cinematografico. Sulle sue amicizie (Laura Betti, Moravia, Fellini, ecc). Sui primi successi teatrali e televisivi e le prime esperienze da capocomico: «allora in compagnia si usava avere il primo attore e la prima attrice, ma io ho avuto delle donne che mi han fatto talmente impazzire che alla fine mi son reso conto che dovevo essere io la primadonna. Così quello che avrebbe potuto essere considerato come un difetto, l'effeminatezza, è diventato col tempo il mio punto di forza. […] le primedonne erano insopportabili… ho sofferto tanto tanto, perché non gli andava mai bene nulla, la paga non bastava, dovevano essere accompagnate a mangiare… e io poi non le trombavo». Sulle sue scelte drammaturgiche: «io son diventato capocomico nell'epoca in cui si scioglievano le compagnie capocomicali e nascevano i teatri stabili, per cui uno Strehler si poteva permettere di avere quaranta primi nomi per fare un Giulio Cesare. E quegli spettacoli erano straordinari. […] io ho dovuto ritagliarmi una fisionomia in una novellina medievale, in un dialogo di Pavese… cercavo più che altro le curiosità italiane, mi interessa la gloria della lingua. C'è una bella differenza fra una cosa scritta in italiano e una traduzione. Perché ho privilegiato autori dell'Ottocento o dei primi del Novecento? Perché… quando son morti è meglio!». Sui suoi maggiori successi (come Rita da Cascia). Sul suo rapporto con la religione: «mah… rimpiango molto il paganesimo. Per esempio io ho il culto dei santi, che sono già una reminescenza del politeismo… più ne viene e meglio è, no? […] li considero la forma di rinascita di quelle piccole mille divinità che - ai tempi di Adriano - non facevano male a nessuno. Invece gli ebrei ci hanno lasciato l'eredità pesante di questo Jehova terribile, così lontano e così vendicativo. Mentre i santi sono come la mia nonna, come mio zio… Io non credo a niente e quindi i santi vanno bene». Sulla sua breve esperienza come padre: «anni fa presi degli orfani, ma non ha funzionato, perché me li dettero già grandi. Io ero già in là con gli anni e mia mamma era anziana. Avemmo in affido questi due fratelli di dodici e quattordici anni, che in realtà avevano i loro genitori, ma che stavano uno dai gesuiti e uno dai barnabiti e non si conoscevano fra loro. Li ho portati nella mia casa di campagna ma non gli piaceva. Avevano paura del cane e sognavano il calciobalilla dell'orfanotrofio. Li portai sulla torre di Pisa e non gli piacque, rimasero solo affascinati dal condotto dell'aria calda che c'era in un bagno per asciugarsi le mani. Erano abituati a svegliarsi col campanello e ormai avevano totalmente assorbito le abitudini dei preti e io glieli rimandai». Sui suoi libri preferiti: «Pinocchio è stato il mio livre de chevet, perché era in questa bella lingua toscana. Era la linea Broglio, quella del vocabolario del parlar fiorentino. Il vecchissimo Manzoni appoggiò questa pubblicazione, ma il vocabolario uscì in pochissime copie e con grande ritardo, perché l'avevan dato in mano a quelli della Crusca, figurati […] Altro libro splendido è quello di Dumas figlio. La signora delle camelie gli è venuta una bellissima commedia. Non c’è una scena al servizio di un'altra. Tutte scene madri. La signora delle camelie è una troia decisa, è una vera maiala!».

Oltre, dunque, a tutto questo parlare, ricordare e raccontare (che non occupa, comunque, una piccola percentuale del libro: forse un 60%), l'altra cosa buona di Siamo tutte delle gran bugiarde è l'idea in sé: ovvero quella di scrivere una biografia di Poli in forma d'intervista. Ovviamente, in questi casi, ottima cosa e di buon gusto è che l'intervistatore, in pratica scompaia: una breve intelligente prefazione, e poi brevissime opportune domandine e lunghe pagine di polidivagazioni (e qui la bravura dell'intervistatore e curatore starebbe, appunto, nella capacità di montare il materiale sbobinato a sua disposizione in modo da eclissarsi il più possibile: scompaio dunque sono). Il buon Giovanni Pannacci, invece, purtroppo, ha sentito una impellente necessità di intervenire, con una frequenza anche di tre o quattro volte a pagina, per commentare le parole di Poli, parafrasarle, spiegarle, postillarle e comunicare, quasi sistematicamente, a uso e consumo di un presunto interesse del lettore, quali siano state le sue reazioni alle parole medesime. Una tecnica che, in chi legge, sortisce un effetto quantomeno onanistico: più o meno come leggere un libro di Henry Miller curato (con centinaia di note a pie' di pagina) da Suor Germana o vedere Zelig di Woody Allen con Roberta di Radio Maria che, dopo ogni sequenza, lo ferma per dire se a lei ha fatto ridere o meno e perchè. Come prendere il diavolo e, a intervalli regolari, rovesciargli addosso, dall'alto, un bacile d'acqua santa.

A Poli, si sa, non piacciono né le definizioni né gli specchi. E Pannacci che fa? Diciamo che passa il suo tempo a definirlo e a piazzarlo di fronte a specchi. Poli è il teatro e l'intervistatore l'antiteatro, Poli è I fiori di Palazzeschi e l'intervistatore è un romanzo di Carolina Invernizio, Poli è la vita e l'intervistatore è un incrocio fra il vecchio professor Spencer del giovane Holden e il Frate Timoteo della Mandragola, Poli è un palloncino colorato e l'intervistatore uno spillo.

Leggere questo libro, perciò, ci ha fatto venire la voglia di leggerne un altro, simile, con Paolo Poli che, però viene lasciato molto parlare a briglie sciolte. E speriamo, davvero, a qualcuno venga l'idea di farlo. Il lettore, così, potrà procedere tranquillo e beato senza la paura di dover sbattere di continuo contro inutili, perentorie e urtanti glosse: fra l'altro, da quanto ci sembra di aver appreso da un'intervista rilasciata da Poli in televisione, il libro è uscito in pratica senza una sua preventiva supervisione. Bellissimo, nel volumetto (95 pp.), comunque, l'apparato iconografico. 


Giulia Tellini


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