Due sono i generi dei libri di referenza: quelli che affrontano un tema circoscritto e lo presentano nellinterezza delle sue problematiche, con apporti documentali praticamente esaustivi (cfr. Mozzati su Rustici) e quelli che si pongono alla fine di un cammino di ricerca più vasto diventando sigillo e sintesi della ricerca medesima. A questa categoria appartiene lo studio di Gabriele Capecchi, dedicato al granduca Cosimo II de Medici e alle arti in Boboli. Snello nelle dimensioni ma in certa misura definitivo nellequilibrio tra conoscenza impagabile del campo di indagine e sua contestualizzazione in un più vasto respiro storiografico, ecco il libro che mancava e che conferma come la vera conoscenza non sia “specialismo” (Dio sa quanti storici dellarte, e non solo, di questo specialismo si beano!) ma maturo inserimento della propria competenza nella rete solidale delle competenze e delle curiosità altrui, capace di suggerire percorsi nuovi anche al di là delle proprie intenzioni.
Frutto di anni di lavoro, come si evince facilmente anche dalle note e dalla esauriente e non ridondante appendice documentaria, il libro si costruisce sui binari paralleli della sintesi storiografica e della illustrazione iconografica che non è affatto accessoria ma consustanziale al percorso informativo.
Protagonista è il giardino di Boboli, non semplice spazio ludico ma illustrazione perfetta di un microcosmo rappresentativo al quale il giovane e presto scomparso granduca (in carica dal 1610 al ‘21, morto di tisi appena trentunenne) aveva affidato il compito di una compiuta rappresentazione del suo potere. Luogo chiuso ed elitario di una identità regnante ormai impregnata di assolutismo, il giardino, acquistato negli anni cinquanta del Cinquecento da Cosimo I ed Eleonora di Toledo, riceverà da Cosimo II il suo attuale assetto strutturale e decorativo (in particolare sotto la guida di Giulio e Alfonso Parigi). Merito del libro, al di là delle importanti attribuzioni in particolare scultoree, è soprattutto la lettura compiuta e pienamente convincente del progetto autocelebrativo che ne sta alla base, la ricostruzione, attraverso un indagine documentaria impeccabile, di quel percorso, oscurato e confuso dalle molteplici manomissioni successive.
La riscoperta del poemetto Chiabreresco sul Vivajo di Boboli aiuta il recupero identificatorio del progetto incentrato sul contrasto tra la Venere Celeste e quella sensuale, che si alternano e si combattono nello spazio allusivo dellisolamento e della separatezza. La costruzione di unalterità immaginifica, contrapposta alla durezza dei negozi del vivere quotidiano, trova in questo giardino il prolungamento e, in un certo senso, una collocazione definitiva rispetto alla sontuosa intermittenza delle manifestazioni spettacolari con le quali, e non sta tra i meriti minori dello studio, lautore stabilisce le giuste correlazioni. Individuando i debiti puntuali di statue e complessi scultorei nei confronti delle manifestazioni spettacolari di cui questi sono ricaduta, lautore non solo dimostra una maturità che non lo rende vittima di rivendicazioni disciplinari, ma dà un rilevante esempio di quella solidarietà tra le discipline cui si faceva cenno più sopra. Nellambito di questa solidarietà mette nella giusta luce un patrimonio di fonti che spesso la storia dello spettacolo ha ignorato: quelle scultoree, appunto, prezioso nutrimento allimmaginazione non solo tematica ma mimica e gestuale. Quei gesti e quelle posture che si sono pianti come irrimediabilmente perduti o si sono cercati nella pittura forse sono proprio conservati, lì, pietrificati, nel giardino metropolitano delle meraviglie.
di Sara Mamone
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