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Denis Lotti

Emilio Ghione l'ultimo apache. Vita e film di un divo italiano


Bologna, Cineteca di Bologna, 2008, pp. 208, ill., € 14,00
ISBN 978-88-9586-206-4

Dopo aver letto una monografia esemplare si resta in genere con molte considerazioni interessanti acquisite e alcune domande da porre, come questa: e se Ghione fosse l’Arlecchino del primo cinema italiano? Lotti ricorda che la sua maschera è erede della tradizione italiana dell’arte, ma spiega anche che si tratta di allargare il concetto all’intero corpo dell’attore: «può essere malato e sofferente, o scaltro e agile». Ghione è maschera e nello stesso tempo marionetta craighiana dai movimenti secchi, arpionata sulle lunghe gambe ossute e scattanti, vivificata dal volto scheletrico e dagli occhi febbrili.

Scrive Ghione a mò di incitamento rivolto a se stesso: «Cammina, attorno osserva la vita, impara conoscere uomini e cose: imprimiti nel cranio donne, eleganti, poveri, borghesi. Nulla tralascia, nulla ti sfugga; inchioda nella tua scatola cranica le visioni vere, serbale intatte. Verrà giorno che le farai rivivere, e le vivrai tu stesso». Si tratta di un’efficace descrizione della tecnica maggiormente utilizzata dagli attori dell’imitazione, l’osservazione della realtà come canovaccio per la costruzione di un personaggio esemplare che – se riuscito - può annetterne infiniti altri. È la linea che parte dalle maschere dei primi professionisti, i comici dell’arte, poi proseguita in Italia lungo tutto il novecento cinematografico, nell’asse che da Petrolini arriva a Totò, Sordi e perfino Benigni, Verdone e Moretti.

I creatori di maschere cinematografiche hanno un padre in Italia ed è Ghione, indiscutibilmente. Uno fra i primi attori-artisti del cinema e il primo (insieme al Maciste di Bartolomeo Pagano) a servirsi del repertorio costruito sul movimento del corpo nella nuova arte cui manca la parola. Ecco che tutte le antiche tecniche riacquistano un senso nella costruzione di una maschera dotata di autonomia performativa, cioè pronta per l’esportazione - i comici attraversavano l’Europa parlando lingue immaginarie, per lo più fonetiche e i film di Za la Mort vengono comprati a scatola chiusa dai distributori europei. Questo per l’attore cinematografico significa, all’interno dell’inquadratura, dominare il piano attraverso l’esibizione dell’intero corpo, investire ogni centimetro della pelle con la minuta osservazione preliminare di un’umanità variegata: per Ghione apache parigini ma anche santi emaciati barocchi, azzimati in frac e mefistofeli, rivoluzionari francesi e marajà. Ma non c’è costume, ambientazione ed epoca che riescano a sviare gli spettatori del primo cinema dall’effigie inconfondibile di Ghione (identificato dal pubblico degli anni dieci e venti per lo più con il personaggio seriale di Za la Mort). Nella tradizione arlecchinesca la maschera si traveste per mettere alla prova la resistenza della propria identità ad ogni camuffamento e così facendo ne rivela l’originalità: il trucco è la delizia gli spettatori felici di riconoscerla e sempre pronti a seguirla in tante diverse avventure. La maschera resiste al tempo e insieme investe il suo tempo di una forma rappresentativa pronta ad ogni uso sociale. Ma dopo gli anni dieci e venti il novecento mostra scarso interesse per Ghione, inghiottito nel buco nero del crollo della produzione cinematografica nazionale e ricordato solo dagli intellettuali (Zavattini, Sanguineti) ma non dalle istituzioni che se ne tengono volentieri alla larga specie dopo il secondo dopoguerra, a causa del modesto contributo reso da Ghione alla fascistizzazione del cinema italiano, come scrive Gian Piero Brunetta nell’introduzione al volume.

Dopo un interesse crescente, risvegliato alla fine degli anni settanta da una retrospettiva della Mostra di Venezia ed alcuni contributi riepilogativi, come il recente volume del compianto Vittorio Martinelli, siamo oggi all’uscita di una monografia in grado di revisionare integralmente l’originale contributo reso da Ghione al cinema italiano, non solo come attore ma anche in qualità di divo, regista e scrittore, secondo la formula «L’arte mia». Denis Lotti titola così la sezione più interessante del volume che invita alla scoperta di una personalità sorprendente in grado di sposare modernità e cultura pittorica, istrionismo e adesione al milieu sociale dell’alta borghesia, cinema commerciale e letteratura d’appendice. Uno snob autodistruttivo dagli squarci visionari che illuminano il suo cinema con luci rasenti puntate sul volto ossuto (il cospicuo contributo iconografico del volume è di per sé pregevole). Lotti ricostruisce con sottile acume la recitazione di Ghione, dotata di un ritmo singolare: gesti secchi e convulsi si alternano a momenti di stasi, una fissità di tre quarti, come nota l’autore, «di grande valore iconologico e comunicativo».

Ghione va oltre la tipologia del vilain, ne rende, con Za la Mort, una declinazione personale, ben compresa da Mario Serandrei quando ne mette in luce a sorpresa il candore (che lo faceva tanto piacere anche a Zavattini): «Il suo viso. Un poema plastico fatto di linee e di piani, che fedelissimamente interpretano il suo mondo spirituale nei suoi mille mutamenti. Un viso macerato dalle sofferenze, aspro nei contorni, duro, irregolare, superlativamente espressivo, illuminato da due occhi buoni, il cui sguardo sa penetrare fino in fondo all'anima tua. La sua anima, che provò il male in tutte le sue tristi incarnazioni, riuscì miracolosamente a rimanere ingenua come quella di un fanciullo». Lotti non manca di analizzare questa peculiarità quando ne riordina la produzione seriale seguendo la metamorfosi del personaggio di Za la Mort dall’apache nobiluomo al giustiziere pietoso, dal conflitto manicheo fra lo Za buono e quello cattivo all’ultimo tentativo di rinnovamento con il detective-reporter. Divo della sua epoca, Ghione è attore e personaggio, intercambiabilmente buono e cattivo, in frac (come Ghione) e in calzamaglia (come Za la Mort). L’antitesi si avvita su se stessa fino a risucchiare l’attore-regista in una vertiginosa mise en âbime della sua biografia (Ghione contro Za la Mort). L’ultimo capitolo della fittissima ricognizione di Lotti è infatti giustamente riservato al personaggio che ha finito per fagocitare l’attore: Za la Mort è investigato dall’origine del nome alla nascita cinematografica, dai suoi tratti pertinenti ai due "romanzi cinematografici" scritti da Ghione, di cui uno parzialmente autobiografico, o meglio, secondo Lotti, metacinematografico come uno dei suoi primi film, Dollari e fracks (1919). E il cerchio di un’esistenza dannunzianamente inimitabile si chiude su se stesso. Completano un volume di indubbio rilievo scientifico, edito nella nuova collana della Cineteca di Bologna curata da Paola Cristalli, filmografia, bibliografia, indice dei nomi e dei film.



di Cristina Jandelli


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