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Veneziamusica e dintorni n.26, gennaio-febbraio 2008


gennaio/febbraio 2009, n.26
ISSN 1971-8241

Pubblichiamo qui di seguito un articolo che apparirà nel prossimo numero della rivista ‘Veneziamusica e dintorni’. Si tratta di un intervento del musicologo Quirino Principe sull'opera Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold che, con la regia e le scene di Pier Luigi Pizzi, apre la stagione lirica della Fenice. Nei links una nota dello stesso Pizzi e l'indice del prossimo numero della rivista.


Un’opinione vulgata, di rado soggetta a verifica, vuole che in Korngold esistano diversi compositori, in ragione di modi diversi di pensare la musica, di proporle un fine e una funzione pubblica. Ci si appella, per giustificare il giudizio e per trasformare in commiserazione la sua iniziale severità, agli accidenti della vita e alla forza tentatrice di facili occasioni di successo. Uno schema approssimativo distingue un primo Korngold, enfant prodige e precoce autore di piccoli gioielli pianistici e cameristici, ammirato con una punta di stizza e persino invidiato da musicisti anziani ed esperti nel mestiere che accoglievano con oscuro disagio l’astro nascente; un secondo Korngold, poco più che ventenne ma già affermatissimo, direttore d’orchestra e didatta alla Wiener Akademie für Musik sino al 1934, nel fervido clima viennese del primo dopoguerra, ed è in quegli anni che nasce Die tote Stadt, op. 12 (1920): un terzo e ultimo Korngold, emigrato in America, che scrivendo – con straordinarie gratificazioni in notorietà e in denaro – colonne sonore di film divenne un famulus di Hollywood e della sua routine, perdendo, in compenso, la fama che un tempo gli aveva arriso in Europa. Questa immagine di un compositore in frammenti si è formata in due fasi. Quarant’anni fa, quando l’ex enfant prodige morì appena sessantenne, anche chi possedeva vaghissime nozioni della musica di Korngold era più o meno al corrente di una dicotomia, nella quale erano distinguibili grossolanamente due Korngold, quello europeo e attivo fra i protagonisti della grande musica austriaca del primo Novecento, e quello americano, professionista corrivo e versatile al servizio dell’industria cinematografica. Di tale dicotomia, molti hanno dato una lettura tendenziosa, dominante negli anni cinquanta, anni di purismo censorio (una sorta di maccartismo applicato all’arte in nome dell’antiedonismo) durante i quali fu reato apprezzare la musica per film, così come fu reato amare Cajkovskij o Rachmaninov: la musica di questi ultimi era guardata dai docenti istituzionali con superciliosa alterigia, poiché si diceva, appunto, che spesso Rachmaninov e Cajkovskij «degradavano» nel cue sheet e nella colonna sonora: prova irrefutabile di volgarità.

Ogni artista, come ogni uomo, è frammentato dal tempo, e senza avvedersene diviene un altro uomo, ma lo diviene con l’impercettibile gradualità con cui diminuiscono i granelli del  soreites nel paradosso di Eubulide. Tuttavia, avvengono emergenze in forza delle quali il divenire è rapido, tranchant, a scatti: non la natura, ma la storia facit saltus. L’unità dell’essenza individuale (non ci piace l’aggettivo «personale», che ha una connotazione cristiana a noi sgradita) ha la meglio sulla frammentazione del divenire se l’individuo possiede forza e intelletto: in una parola, se la sua statura è alta. Alla fine della vita, egli si trova alius et idem (ancora Orazio, Carmen saeculare, 10), ma è più idem che alius se intelletto e forza non gli sono mancati. Certo, un trauma può accentuare la mutazione. Quando Erich Wolfgang Korngold nacque a Brünn (oggi Brno) sabato 29 maggio 1897, l’anno in cui Gustav Mahler divenne direttore alla Hofoper di Vienna, esisteva l’Austria-Ungheria, patria di molte nazioni in difficile e miracoloso equilibrio, ed è notevole che moltissimi fra i grandi «viennesi» di quell’epoca aurea, da Mahler a Freud, da Schönberg a Hanslick, da Hofmannsthal a Zemlinsky, fossero di origine cèca o galiziana o ebraica o magiara o mista; e Korngold era moravo. Quando Mahler, nel novembre del 1908 e poco prima di ripartire per l’America (ah, i presagi!) incontrò l’undicenne Erich Wolfgang e suo padre Julius, e del ragazzo lodò la cantata Gold profetizzando all’esordiente luminosi destini, il mondo esterno non era mutato di molto. Quando Korngold morì a Hollywood venerdì 29 novembre 1957, la trasformazione rispetto alla fin-de-siècle era, nel mondo, vistosissima. Sessant’anni non sono una vita lunga, ma collocati dalla fine del secolo XIX a poco oltre la metà del XX, sì da scavalcare le due guerre mondiali, la fine dei tre grandi imperi (Austria, Germania, Russia) che nel cuore d’Europa lasciarono un gran vuoto lasciando pullulare Stati effimeri o vitali ma travolti da sventure, il fascismo e il nazionalsocialismo, quei sessant’anni furono tanto pieni di eventi da sconvolgere l’essenza a tutto favore del divenire. Nel caso di Korngold e di altri artisti con simili connotati (lo ripetiamo: l’ebraismo, la Mitteleuropa d’origine), alla frammentazione dovuta al tempo e controllabile con l’energia individuale si aggiunse la lacerazione dello spazio: emigrazione e diaspora entrarono nel codice genetico di molta musica del Novecento, da Bartók a Zemlinsky, da Schönberg a Berthold Goldschmidt, da Kurt Weill a Ernst Krenck, da Bruno Walter a Igor Stravinskij: diversi e diversamente accaniti i persecutori, diverso il grado di sradicamento e di malessere, simile la sceneggiatura dell’esilio. Una vita stabilmente ambientata e radicata è definibile mediante due coordinate: il fluire del tempo, le opere dell’uomo. La dislocazione dello spazio, oltre a produrre disagi nell’anima, complica la definizione: introduce una terza coordinata, anzi, molte altre, occasionali e ausiliarie. Nel primo caso, una biografia è una pagina liscia e distesa; nel secondo, grazie all’intrico di assi cartesiani, essa diventa un difficile problema topologico, come il foglio accartocciato che John Gribbin, nel suo In Search of the Edge of Time, assume a similitudine di un destino perturbato e instabile. Perciò a Korngold il tempo e lo spazio sottrassero molto, ma meno di quanto egli offrì in dono all’ascolto, e l’ascolto è la felicità che chiediamo alla musica. Non è importante domandarci se la sua musica abbia guardato avanti o a ritroso nello stile, se essa sia stata remunerata dalla nobile povertà o dalla facile agiatezza. La domanda sarebbe pura ideologia. Se la musica non andasse oltre ogni cosa, come ha scritto Rilke, che cosa sarebbe? Più giusto è domandarsi se l’arte di Korngold sia stata grande o mediocre, o, più esattamente, bella o brutta, poiché questo e non altro conta veramente. Quell’uomo, che nei ritratti appare sempre sorridente e felice, subì forse l’infelicità del sentirsi incompiuto. Sarebbe ingiusto vedere in lui i frammenti di un musicista e negargli la continuità del suo intento: trasmettere generosamente, attraverso la musica, l’energia di ciò che è semplicemente bello.

 

La drammaturgia musicale in «Die tote Stadt»

Siamo d’accordo con un giudizio vulgato: Korngold ha dato il meglio di sé nel teatro. Diremmo meglio: nello spettacolo, poiché anche le colonne sonore che egli scrisse a Hollywood sono fra gli esiti migliori della musica per film, almeno per quanto riguarda il rapporto semantico ed espressivo tra musica e sceneggiatura cinematografica. Del resto, converge in questa direzione la palese teatralità delle sue composizioni orchestrali, compresi i concerti per strumento solista. Siamo d’accordo anche nell’indicare in Die tote Stadt il più felice fra gli esiti teatrali di Korngold, anche se Das Wunder der Heliane, lavoro eccentrico e condannato a morte dal nazismo, forma a nostro avviso una costellazione binaria con il precedente. Certo, proprio l’eccentricità della più tarda fra le due opere fa sì che in Die tote Stadt s’intraveda il nucleo tipico di una drammaturgia per musica in ciò che essa ha d’individuale e di originale. Una rapida e doverosa ricognizione del teatro di Korngold valga come una sorta di accerchiamento della questione, lungo linee irradianti e convergenti.

Il lascito teatrale di Korngold comprende alcuni lavori iscritti in vari generi, dal balletto al musical alla Bühnenmusik, e quattro opere vere e proprie. Il primo gruppo comprende:

a)      La pantomima Der Schneemann («L’uomo di neve»), composta nel 1908, orchestrata da Alexander von Zemlinsky e andata in scena alla Hofoper di Vienna nel 1910 con la memorabile coreografia di Karl Godlewski. Fu la rivelazione del Wunderkind (dell’astro nascente, dell’enfant prodige) e fece del tredicenne Erich Wolfgang «l’uomo del giorno».

b)      Musiche di scena op. 11 per la commedia Much Ado About Nothing di William Shakespeare (1918).

c)      Kathrin (1939) una «Volksoper» che nasce da una curiosa contaminazione di opera e operetta ed è, come ha scritto Brendan G. Carroll (presidente della Erich Wolfgang Korngold Society), «more like a lyrical Singspiel than a dramatic opera».

d)     La commedia musicale The Silent Serenade (Dortmund, 1954).

e)      A partire dal 1929, una serie di adattamenti di operette, fra cui Die Fledermaus di Johann Strauss jr. data a Berlino nella versione registica di Max Reinhardt e, sempre in versione di Reinhardt, La belle Hélène di Jacques Offenbach, per la quale Korngold scrisse un’ouverture ancora talvolta eseguita.

Il secondo gruppo comprende:

1)      Der Ring des Polykrates, opera giocosa («heitere Oper») in 1 atto. Libretto di Leo Feld (pseudonimo di Leo Hirschfeld) e di Julius Leopold Korgold (padre del compositore), tratto dall’omonima commedia Der Ring des Polykrates («L’anello di Policrate», 1888) di Heinrich Teweles. Prima esecuzione: Monaco di Baviera, Hoftheater, martedì 28 marzo 1916, direttore Bruno Walter, interpreti Maria Ivogün (Laura) e Karl Erb (Wilhelm), il 10 aprile di quell’anno vi fu la première viennese con Selma Kurz e Alfred Piccaver nei due ruoli principali. Fu un grande successo di critica: fece eccezione Karl Kraus, che sin dal 1910, sulle colonne della sua rivista «Die Fackel», aveva espresso riserve sul talento di Korngold, e questa volta usò giudizi aspri senza mezzi termini.

2)      Violanta, opera in 1 atto. Libretto del poeta moravo Hans Müller (1882-1950), noto anche con il nome arricchito da un’aggiunta di sua invenzione, Hans Müller-Einigen. Prima esecuzione (insieme con Der Ring des Polykrates): Monaco di Baviera, Hoftheater, martedì 28 marzo 1916, direttore Bruno Walter, interpreti Emmy Krüger (Violanta), Friedrich Brodersen (Simone), Franz Gruber (Alfonso), regia di Anton von Fuchs.

3)      Die tote Stadt («La città morta»), opera in 3 atti: «atti» è termine corrente, ma l’indicazione originale è «in drei Bildern», in tre quadri. Libretto di Paul Schott (pseudonimo di Julius Leopold Korngold) con la collaborazione di Erich Wolfgang Korngold, tratto dal dramma Le mirage (1897) dello scrittore franco-belga Georges Raymond Constantin Rodenbach nella traduzione tedesca (edita nel 1912) di Siegfried Trebitsch intitolata Die stille Stadt («La città silenziosa». A sua volta, Rodenbach trasse il dramma Le mirage dal proprio romanzo Bruges-la-Morte (1892). Prima esecuzione: simultaneamente, nella stessa serata di sabato 4 dicembre 1920, allo StadtTheater di Amburgo e all’Opernhaus di Colonia. Interpreti: ad Amburgo Anny Münchow (Marietta), Richard Schubert (Paul), Maria Olszewska (Brigitta), Josef Degler (Franck), direttore Egon Pollak; a Colonia, nello stesso ordine di personaggi, Johanna Klemperer, Karl Schröder, Katharina Rohr, direttore Otto Klemperer.

4)      Das Wunder der Heliane («Il miracolo di Eliana»), opera in 3 atti. Libretto di Hans Müller, tratto da Die Heilige, una sorta di sacra rappresentazione (Mysterienspiel) del poeta espressionista romeno Hans Kaltneker (o Kaltnecker 1895-1919). Prima esecuzione: Amburgo, Stadt-Theater, venerdì 7 ottobre 1927, interpreti Maria Hussa (Heliane), Sabine Kalter (Messaggera), Carl Günther (straniero).

 

I soggetti delle quattro opere di Korngold si accampano in diversissimi ambiti poetici: versatilità, curiositas, tendenza «alessandrina» (barocco asiana, apulciana, da romanzo ellenistico), molto affine alle scelte drammaturgiche di Richard Strauss e lontanissima dalla monocorde fedeltà a un’aura e a uno stato d’animo, ravvisabile nelle due opere di Berg o nel teatro di Weill. Per non chiamare in causa Strauss, troppo imponente come termine di riferimento, suggeriamo un rapporto di analogia tra il teatro musicale di Korngold e quello di un altro enfant prodige, Eugen d’Albert. In Violanta è l’Italia del Rinascimento, mondo poetico-drammatico assai caro all’opera austro-tedesca della sfera Jugendstil e di zone confinanti: qui è la Venezia del XV secolo, in Eine florentinische Tragödie di Zemlinsky è Firenze, in Die Gezeichneten di Schreker è Genova. In Der Ring des Polikrates è la Sassonia del 1797. In Das Wunder der Heliane affiora un mondo senza tempo, vagamente medioevale e leggendario, in cui dominano fiaba e magia. Tutto ciò sembra una sperimentazione di vari terreni lontani dal presente, separati e visti attraverso un filtro di simbologia realizzata nel diverso, nell’altrove e nell’autrefois, quasi a sgombrare il campo degli esperimenti e a preparare l’ambito spazio-temporale in cui si colloca Die tote Stadt, la grande letteratura contemporanea (contemporanea a Korngold, o precedente di pochi decenni), con un’ambientazione «ai nostri giorni», ossia alla fine del secolo XIX.

Non sarà mai apprezzata a sufficienza, nella storia del teatro musicale, la funzione mediatrice dei librettisti, eroi oscuri e sempre sottovalutati. Fra quelli che collaborarono con il compositore di cui ci occupiamo e che furono tre in tutto, ossia suo padre Julius, Leo Feld e Hans Müller, quest’ultimo fu la personalità più estrosa. Müller, che in origine abbozzò anche il testo per Die tote Stadt ufficialmente ascritto a Julius Korngold (alias Paul Schott) e allo stesso Erich Wolfgang, era nato anch’egli a Brünn/Brno. Di ventidue anni più giovane di Julius, di quindici più anziano di Erich Wolfgang, rappresentava una generazione intermedia tra i due, e di padre e figlio fu, oltre che concittadino per nascita, intimo amico da sempre. I più lo ricordano come uno dei librettisti della celeberrima operetta Im weißen Rößl di Ralph Benatzky (1930). Interessa poco sapere che egli fosse omosessuale e di natura ipocondriaca, e il fatto che egli portasse una grossa sciarpa di lana anche in piena estate è irrilevante. Ci interessa di più, e ci convince poco, il giudizio noiosamente ripetuto sull’incompetenza poetica di Müller, sui suoi eccessi verbali e sul suo cattivo gusto. Bruttissimo è giudicato, abitualmente, il suo libretto per Das Wunder der Heliane, il suo più impegnativo contributo al teatro di Korngold. Proprio quel testo, a nostro parere, spicca per proprietà e senso della misura, e si attaglia perfettamente al carattere magico della musica ideata dal compositore in una fase di geniale ispirazione e in possesso di un magnifico mestiere.

Si diceva: la grande letteratura contemporanea agli anni d’esordio di Erich Wolfgang. La fonte originaria da cui nacque Die tote Stadt è illustre, e scrittore di alto rango è il suo autore. Georges Raymond Constantin Rodenbach (Tournai, 16 luglio 1855 – Parigi, 25 dicembre 1898), rappresentò, insieme con Maeterlinck, Verhacren e Van Lerberghe la rinascita della letteratura belga di lingua francese dopo il 1880, e il suo stile si sviluppò partendo dall’esperienza del Parnasse e procedendo, sotto l’influenza del Verlaine più maturo, verso il simbolismo. La maturazione era compiuta, nel 1892, quando uscì il romanzo Bruges-la-Morte. Hugues Viane si trasferisce a Bruges per vivere nel ricordo della moglie morta, Ophélie, e nella città gli sembra di riconoscere la sembianza dell’amata. Una sera, nell’intrico delle vie di Bruges, vede una donna, Jane, il cui volto somiglia perfettamente a quello di Ophélie. Ne fa la propria amante, ma Jane è una ballerina petulante e volgare. Un giorno, in casa di Hugues, Jane va di stanza in stanza osservando beffarda i ritratti e le memorie della defunta. Vede la treccia ambrata di Ophélie, tenuta gelosamente da Hugues come sacra reliquia. Per scherno, la afferra e se la avvolge al collo. Hugues ordina di posarla, ma al rifiuto della donna, impazzito d’ira e di dolore, strangola Jane con la treccia. Molto apprezzato da Maeterlinck, il romanzo di Rodenbach influì, pochi anni dopo, su Henry James e su un suo lungo racconto, The Altar of the Dead (1896). Giova rammentare che dal racconto di Henry James, mediante una contaminazione con due altri più brevi testi narrativi dello scrittore americano (The Friends of the Friends e The Beast in the Jungle), François Truffaut trasse nel 1978, interpretandone il ruolo di protagonista, il macabro e raffinato film La chambre vert. Da Bruges-la-Morte emana un flusso acre e sottile che filtra in linguaggi artistici di varia natura: poesia, musica, teatro, cinema. Nel libretto abbozzato da Müller e rielaborato dai due Korngold sono quasi immutate le funzioni narrative del romanzo e del dramma derivato, Le mirage: mutano però i nomi dei personaggi. Hugues, Ophélie e Jane diventano rispettivamente Paul, Marie e Marietta. C’è però, nel libretto, una differenza fondamentale, che si fa determinante nel rapporto con la drammaturgia musicale: Marietta non è frivola, vacua e volgare, non è un «assoluto naturale» né pura e animale sensualità come la Jane di Rodenbach. È invece consapevole della profanazione che compie toccando la treccia e deridendo Paul e il suo culto delle reliquie. È, propriamente, una figura demoniaca, così come è infernale il Signore in Heliane. Lo stesso Korngold insistette nel porre in rilievo questo aspetto – del tutto nuovo rispetto a Rodenbach – quando scrisse nel 1921 una limpidissima sintesi della trama per un numero speciale della rivista viennese «Blätter des Operntheater», in occasione della première di Die tote Stadt a Vienna.

Korngold cominciò a lavorare a Die tote Stadt nel 1917. Il soggetto gli era stato fornito dal traduttore e drammaturgo Siegfried Trebitsch, e si trattava della versione tedesca (intitolata, come sappiamo, Die stille Stadt, 1902) del dramma Le mirage, che lo stesso Rodenbach aveva scritto rielaborando in forma teatrale il romanzo Bruges-la-Morte. La traduzione di Trebitsch era andata in scena nel 1903 al Deutsches Theater di Berlino, ma con un titolo diverso, Das Trugbild, che traduce letteralmente Le mirage e si riferisce all’apparizione del fantasma di Ophélie (poi Marie in Die tote Stadt). Il dramma mantenne quel titolo anche nell’edizione tedesca dei drammi di Rodenbach curata da Trebitsch (München, 1913), e ciò è importante, poiché sottolinea l’intenzionale spostamento del centro poetico irradiante e del nucleo fantastico-drammatico rispetto al romanzo. Importante, in particolare, nell’ispirazione musicale di Korngold. Il ventenne compositore tracciò subito una sceneggiatura in 1 atto, entusiasmandosi per il soggetto. Intervenne Hans Müller, che ampliò il progetto facendone un’opera in 3 atti, cui avrebbe voluto dare un titolo quasi dannunziano per antifrasi, Der Triumph des Lebens («Il trionfo della vita»). Presto, però, l’irrequieto Müller rinunciò alla collaborazione, e lo sostituì il cinquantottenne Julius Korngold, in strettissima intesa con il figlio. Erano i tempi in cui Erich Wolfgang ubbidiva ancora ai gusti e alle posizioni teoriche del genitore in materia di teatro e di musica, e taluni hanno asserito che il giovane musicista fu spesso plagiato dall’anziano critico. Alcuni sospettavano addirittura, stizziti dalla precoce genialità dell’enfant prodige, che Julius scrivesse la musica per cui il figlio era ammirato: una falsa accusa, respinta da Julius drasticamente: «Se io sapessi scrivere musica come questa, non farei il critico!» («Wenn ich Musik wie diese schreiben könnte, wäre ich nicht Kritikor!»). Korngold padre, tuttavia, si celò dietro lo pseudonimo di Paul Schott. Il prenome fittizio alludeva al nome del protagonista dell’opera, Paul, sostitutivo di Hugues Viane. Il fittizio cognome era allusivo alla casa editrice Schott di Mainz, destinata a pubblicare Die tote Stadt. Al principale socio proprietario della Schott, Ludwig Strecker (Dieburg in Assia, 26 marzo 1853 – Mainz, 19 dicembre 1943), fu dedicata dall’autore Die tote Stadt. Il 15 agosto 1920, Korngold ultimò la composizione della partitura. Nell’ottobre 1920, Giacomo Puccini fu a Vienna, ed ebbe l’occasione d’incontrare il ventitreenne Korngold. Strano destino: fra i progetti operistici presi in esame da Puccini tra il 1903 e il 1910 e mai realizzati, c’erano anche A Florentine Tragedy di Oscar Wilde (messa in musica da Zemlinsky nel 1916-1917) e, appunto, Bruges-la-Morte di Rodenbach. Korngold, al pianoforte, suonò e cantò per intero Die tote Stadt in presenza di Puccini, il quale ne fu tanto impressionato da definire in pubblico Korngold come «la più grande speranza della nuova musica tedesca».

Se esaminiamo la già ricordata Handlung der Oper scritta da Korngold nel 1921, vediamo come l’azione in sintesi dia rilievo a una serie di eventi musicali, non puramente espansivi o decorativi rispetto alla sceneggiatura, ma nuclei essenziali della drammaturgia. Fin dalle prime righe, l’immagine di Bruges, città morta, si apre con l’evocazione di un suono mesto e lugubre: «… le sue campane, le vecchie case in rovina, l’acqua stagnante nei canali, le chiese malinconiche e i chiostri…». Quando in casa di Paul giunge Marietta, ella «canta una canzone, accompagnandosi con il liuto, un canto di un “amore fedele votato alla morte”, che assume per Paul un grande significato. Marietta danza, eccitando i sensi del giovane. Cedendo alla seduzione, Paul tenta di abbracciare la donna. Respingendolo e allontanandosi da lui, ella resta impigliata nella tenda che cela il ritratto di Marie; tentando di districarsi, scopre il ritratto. Non è forse lei medesima, quella donna? Lo stesso scialle, lo stesso liuto? Ora però Marietta deve andare alla sua prova teatrale: è Hélène in Robert le Diable di Meyerbeer». Quando Marietta lo lascia, Paul è combattuto tra la fedeltà alla memoria di Marie e il nuovo incalzante desiderio. Percorso da una tensione che gli turba i sensi e l’anima, il giovane ha una visione. Gli sembra che Marie esca dal ritratto: è un’immagine uscita dalla dolorosa e nostalgica fantasia o dai rimorsi della coscienza. Paul giura a Marie di esserle rimasto fedele, ma il fantasma lo esorta ad uscire, poiché un’altra lo chiama alla vita. All’improvviso, in luogo di Marie il giovane vede Marietta che danza sfrenatamente.

Nel II atto, gli eventi musicali si avvicendano in modo addirittura clamoroso, e sono ancor più essenziali all’azione scenica: anzi, tutt’uno con essa. Sulla sponda di un canale, Paul rivela alle campane di Bruges, «ferrei confessori», le ferite della sua coscienza. Quando la compagnia teatrale di cui fa parte Marietta si avvicina in barca, cantando allegre canzoni, la ragazza suggerisce di provare all’aperto la scena di Hélène da Robert le Diable. Victorin, direttore di scena, fischietta il motivo della Risurrezione dall’opera di Meyerbeer. Dalla cattedrale viene il suono di un organo, mentre le beghine appaiono spettrali alle finestre. Il cielo si copre di nubi violacee e minacciose e le campane suonano a morto. La sceneggiatura è già in sé, nel suo gioco d’incastri sonori, una straordinaria drammaturgia musicale. Così, nel III atto, la scena della processione sacra associa il coro dei fanciulli a un misterioso ritmo di marcia. L’invenzione musicale di Korngold procede tutta secondo la tecnica del montaggio e dell’ibridazione.

L’autore trae forza drammatica da due procedimenti inventivi. Il primo è l’elaborazione di brevi motivi fondati su intervalli di quarta e di quinta, caratterizzanti i diversi momenti dell’azione con lievi sfumature di linea melodica. Il secondo è l’improvviso turgore lirico che dilata l’espressione musicale e sembra immobilizzarla in una sorta di estasi allucinatoria. Una spettrale e tragica sembianza nasce così, a tratti, da semplici e graziosi elementi di musica «già data»: la canzone popolare intonata da Victorin, «Ja, bei fest und Tanz», la romanza da salotto «Mein Sehnen, mein Wähnen» cantata da Fritz, il Pierrot della compagnia; l’aria di Marietta, «Glück das mir verlieb», nello stile della giovane scuola italiana detta impropriamente «veristica». La scena del II atto in cui Marietta, spiata da un Paul geloso e tormentato, civetta con il ballerino Gaston, ci ricorda molto da vicino Il tabarro pucciniano. A volte, con efficace logica espressiva fondata sul rovesciamento di situazione mediante inversione dei procedimenti musicali, il repentino inturgidirsi della melodia è sostituito dal suo contrario: l’invenzione melodica si fa esile, diventa l’ombra di se stessa, si frantuma. Il motivo che emerge dall’orchestra nella scena in cui il fantasma di Marie esce dal ritratto (una scena che ci ricorda un’opera amatissima da Korngold, Les contes d’Hoffmann di Hoffenbach) assume la funzione di idée fixe nella coscienza di Paul. Quando la larva di Marie, rientrando lentamente nel ritratto in un alone di nebbia, pronuncia le terribili parole «Unsere Liebe war, ist und wird sein» («il nostro amore, fu, è e sarà»), quel motivo si spezza in frammenti. Ma quando, alla fine dell’opera, il motivo suona per l’ultima volta, dilatato, nelle parole di Paul:

 

Leben trennt vorn Tod –

grausam Machtgebot.

Harre mein in lichten Höh’n –

hier gibt es kein Auferstehn.

 

La vita si separa per sempre dalla morte –

crudele volontà d’implacabile sorte.

Tu nella luce, arrendimi, lassù –

risurrezione qui non c’è, mai più.

 

esso è di nuovo ricomposto, e la sua originaria unità è la memoria di un passato irrecuperabile.


 



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