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Cineforum


anno IIL, n. 3, aprile 2008, € 7,60

Il film-copertina di questo numero è Sweeney Todd di Tim Burton, oggetto del primo dei due speciali che abitualmente aprono la rivista, intitolato La carne del barbiere. I quattro articoli che riguardano il musical dark del regista californiano sono veramente molto interessanti per chiunque voglia approfondire la conoscenza di questo autore e della sua opera. Andrea Bordoni e Matteo Marino nel loro Sogni d’argento, "riportano in vita" addirittura uno dei primi cortometraggi di Burton Frankenweenie (la storia di un ragazzino, novello Frankenstein molto junior, che "resuscita" il suo amato cane morto accidentalmente, il film è disponibile diviso in tre parti su www.youtube.com) per sottolineare la forte coerenza che sottende tutta la sua opera, passando per film quali Edward mani di forbice, i due Batman, Big Fish, ma, soprattutto, La fabbrica del cioccolato del quale si rileva il pressoché identico incipit, dove agli ingranaggi che producono dolci si sostituiscono quelli attraverso i quali passa il sangue delle vittime del barbiere. La visione di Bordoni e Marino è, comunque, molto contenutistica e si sofferma sul significato metaforico ed evocativo delle immagini e delle parole delle canzoni interpretate dai protagonisti, evidenziandone il forte valore critico verso il capitalismo che altro non è che una specie di cannibalismo malamente mascherato ("Qual è il suono del mondo? Sgranocchiare, masticare, sono uomini che divorano uomini, e chi siamo noi per evitare tutto questo?").

Hey! Don’t I know you, mister? è la domanda che Lucy (la moglie del barbiere, creduta morta, ma diventata un’orrida mendicante) rivolge a Sweeney appena arrivato a Londra, ed è anche il titolo dell’articolo di Francesca Betteni-Barnes D. che, dopo aver brevemente indicato i percorsi narrativi delle varianti della storia di Sweeney Todd, , fa un’operazione filologicamente molto interessante: esaminando le differenze tra il musical di Stephen Sondheim del 1979 su cui si basa il film di Burton e il film stesso. Le due "varianti" vengono tenute distinte ed analizzate in due paragrafi diversi dal titolo: La ballata di Benjamin Barker secondo Stephen Sondheim e La ballata di Edward l’oscuro secondo Tim Burton. Nel primo si mette in evidenza il tentativo riuscito di Sondheim di fare del barbiere un personaggio tragico ed autodistruttivo, che ha come modello più Amleto che Jack The Ripper, sottolineando come il continuo ricorso al contrappunto musicale e ad una eterogenea miscellanea di generi (dal valzer alla ninna nanna), siano le mosse vincenti di questa rilettura della storia di Todd, come "servitore del dio «oscuro e affamato» della Morte". Nel secondo si vede come Burton abbia cercato di piegare la storia alle tematiche a lui più care, sacrificando alcuni brani musicali, amplificando l’importanza del rapporto tra Sweeney e la vedova Lovett e aggiungendo uno spessore dickensiano al personaggio del piccolo orfanello Toby. Qui il diabolico barbiere è più Nosferatu che Amleto (direi che il protagonista dei film di Burton è sempre un vampiro, specie se interpretato da Johnny Depp), l’esatto opposto di Edward Mani di forbice, che usava le sue lame nell’inutile tentativo di farsi amare dalla società, mentre Todd usa la sua abilità per vendicarsi di quella stessa disperata società che l’ha condannato e che, comunque, non ha nessuna possibilità di salvezza.

Edward Todd di Giulia Russo riprende il parallelo tra Sweeney Todd e Edward Scissorhands: "Edward è uscito di nuovo dal suo castello ma questa volta è in cerca di vendetta"; similitudini e contrappunti sono molto forti in questi due film, anche se ciò che lega più di ogni altra cosa i due protagonisti sono le lame. Ciò che per Edward è un limite che gli impedisce il contatto con l’altro da sé, per Sweeney rappresenta l’estrema "difesa" da questo indesiderato contatto ed è proprio impugnando uno dei suoi rasoi che dirà: "Finalmente il mio braccio è nuovamente intero". Sim sala bim di Pier Maria Bocchi si concentra più sulle dinamiche della visione e del campo-fuori campo, estrapolando due scene in particolare: lo sguardo di Sweeney e della vedova Lovett sui passanti, reso opaco e deformato dai vetri unti della locanda e lo sgozzamento offscreen di Beadle, laido inserviente del giudice Turpin. A partire da queste due scene, secondo Bocchi, il film finalmente prende quota, entrando nella sua dimensione di evidenza grandguignolesca e, contemporaneamente, virando verso una mise en scene di impianto più teatrale, che rende sopportabile anche il terribile impatto con la morte che ha Toby, l’orfanello "adottato" dalla vedova. Burton mette in scena il "brutto del mondo", facendo una scelta completamente opposta rispetto a chi si affida a You Tube, "ripartendo dal trucco".

Il secondo speciale, dal titolo La materia del Sogno, riguarda Il petroliere di Paul Thomas Anderson ed anche qui si torna a parlare di sangue e capitalismo, binomio che sembra inscindibile. Ne La solitudine del capitalista Alberto Morsiani, oltre a sottolineare la crasi tra sangue e petrolio che inonda tutto il film, traccia un percorso molto particolare di opere in cui è possibile recuperare quei tratti tipici "dell’homo americanus impegnato nell’addomesticamento e nello sfruttamento della wilderness" propri del protagonista Daniel. A parte lo scontato Citizen Kane, punti di contatto vengono trovati con i protagonisti de Il fiume rosso e Ambizione di Hawks, così la sua castità richiama quella di Dutch ne Il mucchio selvaggio, mentre la sua follia competitiva, sempre sull’orlo di scoppiare, riporta direttamente al Travis Bickle di Taxi Driver. Misantropia, solitudine, individualismo e stroheimiana rapacità, sono le caratteristiche del protagonista vera incarnazione dell’Eachness di William James. Crudo & nero di Jonny Costantino mette in relazione l’interpretazione di Daniel Day-Lewis in questo film con quella del Macellaio Bill in Gangs of New York di Scorsese, il risultato è un gustoso saggio sull’arte attoriale dove si arriva ad affermare che Anderson non ha "potuto prescindere dai risultati ottenuti da Scorsese con il Macellaio, per far venire alla luce il Petroliere, sfruttando al meglio la presenza plastica e le qualità espressive di Daniel Day-Lewis". Più classica la disamina Giochi di luce: frammenti e contrasti di Luca Malavasi dove si sostiene che "Il petroliere è, prima e alla fine di tutto, un film di luce, sulla luce: un film che senza «studio» e con molto istinto trasforma due dati materiali (il petrolio e Dio) in simboli, sublimandoli nel conflitto cruciale tra la luce e la sua assenza".

Le schede di questo mese riguardano Non è un paese per vecchi di Joel e Ethan Coen, dove Giuseppe Imperatore fa un lungo ed appassionato elogio del film (anche troppo appassionato visto che scomoda paragoni con Peckimpah, Penn padre e Siegel) con puntuali e rivelatori riferimenti al romanzo di Cormac McCarthy; Persepolis di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi, significativa la nota di Mattia Mariotti che equipara il giudizio sul film della Fondazione Farabi (l’agenzia di stato iraniana per il Cinema) con il "pessimo servigio alla patria" che Andreotti vide in Umberto D.; Onora il padre e la madre di Sidney Lumet, ottima analisi formale di Giampiero Frasca, che rileva come un diverso "trattamento" filmico sia riservato ai vari personaggi e come la costruzione dell’immagine sia indissolubilmente legata alla costruzione del carattere; Sonetàula di Salvatore Mereu, elogio incondizionato di Lorenzo Donghi che relaziona il film all’opera di Gianni Amelio, Vittorio De Seta ma anche di Piavoli e del giovane Frammartino (segue una bella intervista di Gianni Olla al regista intitolata Essere in empatia col proprio mondo); Lontano da lei di Sarah Polley, anche qui Michele Marangi sottolinea l’importanza delle performance degli attori che permette alla regista di lavorare "sull’inespresso (e l’inesprimibile) con silenzi, sguardi nel vuoto, occhiate fuori campo che tocca allo spettatore tentare di riempire di senso"; Il futuro non è scritto – Joe Strummer di Julian Temple, doveroso omaggio ad una delle più importanti figure della musica rock, in cui Chiara Borroni vede echi delle tavole dell’atlante della memoria di Warburg, in quanto intercetta "la qualità speciale di un dato momento storico"; John Rambo di Sylvester Stallone, inaspettato elogio di Pier Maria Bocchi dell’opera di Stallone, dove oltre allo scontato parallelo con l’ultimo Rocky Balboa si avventura in più spericolati, per quanto pudici, accenni ad Apocalypse Now, comunque, dice Bocchi, che la vera operazione di macelleria è stata fatta dal distributore italiano Fulvio Lucisano che "per evitare il divieto ha drasticamente ridotto la durata del film" facendone addirittura uno "scempio birmano".
Le recensioni di Filmese riguardano Nelle tue mani, Biùtiful cauntri, Il mattino ha l’oro in bocca, Fine pena mai, Rec, Grande, grosso e... Verdone, Lezioni di felicità, Rendition – detenzione illegale.

Seguono tre pregevoli scritti monografici su tre grandi protagonisti della storia del cinema: Ernst Lubitsch, Louis Malle e István Gaál. Il vero tocco di Lubitsch di Sergio Arecco prende spunto dal bellissimo libro dello sceneggiatore Samson Raphaelson (L’ultimo tocco di Lubitsch, Adelphi, Milano, 1993) per tornare a parlare del cinema dell’autore tedesco e su cosa caratterizzasse il suo proverbiale "tocco", individuando nel "dispositivo ludico del faux pas" una di queste caratteristiche e riconoscendo alla penna di Raphaelson il merito di aver contribuito in maniera decisiva a perfezionarlo. Malle musique di Ermanno Comuzio è un’ottima carrellata sui forti rapporti tra il cinema di Malle e la musica, vengono presi in esami generi (jazz, classica, country) ed autori (Miles Davis, Satie, Wagner, Ry Cooder) che hanno caratterizzato le varie fasi della produzione di questo regista, in cui, come di Comuzio, "non ci sono sfondi sonori, ma affondi sonori". Breve comunque, la vita di Tullio Masoni, parte dalla retrospettiva fatta dal Trieste film Festival su István Gaál, recentemente scomparso, e dalla pubblicazione del volume Radici. Il cinema di István Gaál curato da Judith Pinter e Paolo Vecchi, per soffermarsi su alcune caratteristiche peculiari di questo autore, anche qui viene privilegiato il suo rapporto con la musica (Bela Bartók in particolare).
Lungo e particolareggiato è l’articolo Panorama da ricordare sul 58° Festival Internazionale di Berlino, dal quale emerge come sia proprio la sezione "Panorama" quella complessivamente più interessante ed omogenea anche rispetto alle opere presentate in concorso, non tutte all’altezza.
In Festival e rassegne vengono presi in esame i festival di Budapest, Il Cairo, Lione, Trieste-Alpe Adria e Sottodiciotto di Torino.

Nella sezione DVD vengono recensiti quattro film di Andrzej Zulawski, usciti da distributori diversi nell’ultimo anno (La terza parte della notte, Il diavolo, Femme publique e Amore balordo), Corea in fiamme di Samuel Fuller e Shooting Silvio di Berardo Carboni.
La sezione libri recensisce La luce nel cinema di Jacques Loiseleux (ed. Lindau), Dizionario mondiale dei direttori della fotografia A-K di Stefano Masi (ed. Le mani), Daniel Schmid a cura di Lorenzo Buccella (ed. Cineteca di Bologna), Etica ed estetica dello sguardo. Il cinema dei fratelli Dardenne a cura di Sebastiano Gesù (ed. Maimone), Segni di vita. Werner Herzog e il cinema di Grazia Paganelli (ed. Il Castoro), Attraverso lo schermo a cura di Ruggero Eugeni e Dario Vigano (ed. Ente dello Spettacolo), Il cinema e il caso Moro di Francesco Ventura (ed. Le Mani), C’era una volta il western di Giampiero Frasca (ed. UTET), Allarme rosso di Paolo Alberto Casadio (ed. Longo), Moltiplicare l’istante a cura di Elena Dagrada, Elena Mosconi e Silvia Poli (ed. Il Castoro), Un’arte sonora, il cinema di Michel Chion (ed. Kaplan).
Chiudono la rivista Soap di Giorgio Cremonini e Le lune del cinema di Nuccio Lodato.

Luigi Nepi


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