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Jean Starobinski

Le incantatrici


Torino, EDT, 2007, pp. 316, 18 euro.
ISBN 978-88-6040-161-8

Una festa dell’intelligenza e del pensiero. Difficile definire altrimenti l’ultima pubblicazione di Jean Starobinski, classe 1920, una delle poche teste pensanti di oggi per le quali è doveroso scomodare – e senza alcun sottotesto negativo o limitativo – la qualifica di “intellettuale”. Se è vero, come scriveva Guido Piovene a proposito delle intuizioni di Goethe sulla pittura del Veronese, che “la vera linfa della critica è nelle osservazioni dei dilettanti di genio”, Le incantatrici è uno di quei casi in cui un non addetto ai lavori (ma Starobinski legge benissimo la musica) porta un contributo fondamentale alla pubblicistica musicale degli ultimi vent’anni.

Non che il volume contenga tutto materiale nuovo: al contrario, la maggior parte dei capitoli proviene da lavori (per lo più articoli pubblicati in occasione di rappresentazioni al Grand-Théβtre di Ginevra, qui riproposti con qualche modifica e integrazione) scritti tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Quello dedicato al Don Giovanni, tra l’altro, lo si poteva già leggere nei programmi di sala di alcuni teatri italiani che hanno recentemente allestito l’opera di Mozart. Tuttavia, è notevole il modo con cui l’autore riconduce a un corpus unitario testi eterogenei, utilizzando un collante in fondo alquanto vago (il concetto d’incanto e seduzione nella letteratura operistica), ma che – grazie al primo e al magistrale ultimo capitolo, scritti ad hoc – appare d’una logica stringente.

La forza di attrazione che esercita il melodramma, scrive Starobinski, “risiede nel fatto che essa ha trasformato gli incantesimi di un passato leggendario in un incantesimo attuale, giocato sull’onda dell’istante in cui si svolge l’azione e si ascolta la nota cantata”: sicché, prosegue lo studioso ginevrino, “nelle più belle rappresentazioni operistiche si coglie la duplice energia di una memoria che persevera e di un’immaginazione che inventa”. A leggere tra le righe, si tratta di un J’accuse verso gli eccessi “attualizzanti” di certe regie odierne (su cui l’autore tornerà in altra parte del libro): il magnetismo che propagano questi incantamenti deriva proprio dalla loro diacronia tra passato e presente, qualunque tentativo di radicarli nell’oggi per sottolinearne l’attualità li banalizza e, per ciò stesso, li sottrae alla qualifica d’incantesimo. Ma chi, a questo punto, volesse tacciare Starobinski di conservatorismo in materia di messinscena sarebbe fuori strada: nel capitolo dedicato al Flauto magico ammette il proprio debito intellettuale verso certe regie intelligentemente anticonformiste, sottolineando come la sua visione dell’estremo capolavoro mozartiano si sia arricchita dopo aver visto, a Bruxelles, l’allestimento firmato da due padri fondatori del regietheater come Ursel e Karl-Ernst Herrmann. E sono proprio i disegni realizzati da quest’ultimo per le scene e i costumi di quello spettacolo a contrappuntare il capitolo, con una decina di tavole che hanno valore non esornativo, ma di pendant rispetto alle parole dell’autore.

Tuttavia l’incantesimo del melodramma non è uno, ma trino. Il primo è quello di certe grandi figure femminili, e la casistica appare quanto mai ampia: il libro dedica singoli capitoli alle grandi incantatrici, dalla Poppea di Monteverdi all’Alcina haendeliana a Manon, e occasionalmente anche ai grandi incantatori (Don Giovanni), né trascura – pur senza dedicare loro un apposito primo piano – Carmen, Kundry e Venere del Tannhäuser. Appare semmai un po’ forzato l’inserimento, in tale compagnia, di Elettra, intesa come seduzione mortifera: ma è comunque un’occasione per leggere una manciata di pagine illuminanti sulla poetica di Strauss e Hofmannsthal. Il secondo incantesimo è quello della Grande Seduttrice per eccellenza, ovvero la forza ammaliante della musica. Il terzo – direttamente correlato al secondo, ma che nell’opera lirica assume specificità propria – è quello del canto: d’altronde, sottolinea l’autore, sia in francese (la lingua in cui scrive Starobinski) sia in italiano (l’ottima traduzione è di Carlo Gazzelli) chant e enchantement, canto e incantesimo hanno la stessa radice, e non a caso il primo capitolo del libro – intitolato Cantare, sedurre – offre una personale rivisitazione del mito delle sirene.

Ma è soprattutto il capitolo conclusivo a incentrarsi sulla malia del canto, attraverso il suo veicolo più suadente e ambiguo: le voci dei grandi castrati. Le ultime settanta pagine del libro, intitolate Ombra adorata, prendono spunto dall’omonima aria – celeberrima, a cavallo tra Sette e Ottocento –composta ed eseguita, per la “prima” del Giulietta e Romeo di Zingarelli (1796), dal mitico evirato cantore Girolamo Crescentini, che conferì all’adolescente Montecchi il proprio timbro asessuato e stilizzatissimo: dunque, in un’ottica neoclassica e postbarocca, oltremodo incantatore. Starobinski indaga – intrecciandoli – i percorsi dei tre scrittori che, di lì a qualche tempo, sarebbero tornati sulle tracce di quest’aria: Stendhal, nella sua Vita di Rossini; Hoffmann, che volle fare di Ombra adorata il titolo d’un proprio racconto; il Balzac di Massimilla Doni, dove il nocciolo estetico della novella – uno degli Studi filosofici – è la diversa emotività richiesta, per il cantante chiamato a interpretarli, dal Mosè rossiniano e dal vocalismo abbacinante della pagina di Crescentini. Ne sortisce un puzzle tutto da ricostruire, una sorta di eruditissima indagine poliziesca che sarebbe piaciuta a Sciascia; e riponendo il volume la sensazione è quella del termine di un viaggio, come accade alla fine d’ogni grande e piccola avventura intellettuale.



di Paolo Patrizi


copertina

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