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Spettatori italiani. Riti e ambienti del consumo cinematografico (1900-1950)

A cura di Francesco Casetti e Elena Mosconi

Firenze, Carocci, 2007, pp. 144, euro 15.20
ISBN 88-430-3635-I

Con Spettatori italiani. Riti e ambienti del consumo cinematografico (1900-1950), a cura di Francesco Casetti e Elena Mosconi, la ricerca italiana mostra di aver fatto un ulteriore passo in avanti nella comprensione del ruolo che il cinema ha avuto nella storia culturale e sociale del paese. I luoghi di visione sono sempre stati visti come terreno troppo collaterale e accessorio nella storia della tecnologia, solo di recente l’indagine sui fenomeni e sui discorsi che attorno a essi si sviluppano e si intrecciano ha attirato l’attenzione degli studiosi.Il volume Spettatori italiani presenta cinque ricchi saggi – ciascuno corredato da una scheda di approfondimento – che illuminano diversi aspetti legati alla ricerca attorno ai luoghi di visione. Ai due pilastri metodologici – la circoscrizione di ambiti temporali e geografici e l’adozione di una prospettiva di storia sociale e culturale – fanno eco due ipotesi: la prima cerca di dimostrare come il luogo di visione influenzi il senso dell’esperienza cinematografica; la seconda vede negli spazi della visione i luoghi di catalizzazione e di creazione di "identità". Questi obiettivi acquistano nuovo senso se nel lavoro di indagine si tiene conto soprattutto delle intersezioni, delle zone grigie che portano il cinema in continuo contatto con altri ambiti della storia della cultura del Novecento.

Il primo contributo, Uno spazio composito: il politeama di Elena Mosconi, prende in considerazione il caso di un tipo di teatro che in Italia, per il pubblico borghese di fine Ottocento inizi Novecento, ha rappresentato il punto di partenza per un processo di "democratizzazione" dell’esperienza spettacolare. Allo stesso tempo l’incontro con il nuovo medium ridefinisce l’esperienza della ricezione del cinema, nobilitandolo e collocandolo in uno spazio più "alto" rispetto all’esperienza della fiera o dello spettacolo da baraccone. Il politeama si fa anche luogo per l’esplicitazione di quelle dinamiche di intermedialità che caratterizzano il cinema delle origini e che lo legano, come scrive Gaudreault, a serie culturali precedenti. Infine l’esperienza della nuova forma d’arte in questo tipo di teatro non fa altro che mostrare le profonde relazioni, sempre in via di crescita e trasformazione, tra il cinema e l’identità nazionale. La scheda di approfondimento, curata da Georgia Conte, ricostruisce con una breve parabola la storia del politeama a Bari, indicando nelle sue vicende una misura privilegiata per capire il rapporto dei cittadini con vecchie e nuove forme di spettacolo.

Il secondo saggio, Transiti: cinema e varietà sempre di Elena Mosconi, analizza gli incroci tra il passato e il presente dell’intrattenimento, i transiti che portano al compimento del processo di istituzionalizzazione composita che segna la convivenza tra il cinema e il varietà. La compresenza negli stessi luoghi di varietà e cinema favorisce il consolidamento, per ciascuna delle forme di spettacolo, di un proprio specifico modo di espressione e rappresentazione. Il rapporto – scrivono Casetti e la Mosconi nell’introduzione – " non si risolve in un passaggio di consegne dal primo al secondo, ma in un gioco speculare e sempre aperto di continue ridefinizioni, un gioco cui partecipano tutti gli attori sociali coinvolti nel processo comunicativo". La scheda che accompagna questo capitolo, ad opera di Maria Francesca Piredda, si occupa del caso di un famoso cinema-varietà milanese, il Triestino –Argentina, seguendone l’evoluzione dagli inizi del Novecento fino agli anni Quaranta.

In La sala cinematografica tra le due guerre: spazio architettonico e spazio sociale, Elena Mosconi e Nicoletta Ossanna Cavadini, riflettono sul luogo della sala cinematografica come spazio architettonico, spazio istituzionale e spazio sociale. Dell’eredità dello spazio teatrale la sala cinematografica conserva una certa classicità che, tuttavia, cerca di sposare con i nuovi criteri della modernità. Dialogando con il sistema politico, la sala come istituzione diventa un luogo di costruzione del "consenso e vicinanza con le masse". Come spazio sociale i cinematografi giocano sulla costruzione dell’identità del pubblico, sulla sua appartenenza a determinati ceti e sulle dinamiche di riconoscimento e identificazione con specifici valori. La sala diventa sempre più il gate per l’ingresso in un nuovo mondo, dove lo spettatore può trovare una nuova identità, che continuerà a portarsi dietro anche dopo l’uscita dal cinema. La scheda, curata da Nicoletta Ossanna Cavadini, ci offre un breve approfondimento sulla storia del cinema-teatro Barberini di Roma.

Il quarto saggio di Deborah Toschi, Elementi per una genealogia del pubblico rurale, tenta di individuare le linee di sviluppo della formazione di un pubblico molto diverso da quello delle città – più allenato alle novità – il pubblico contadino appunto. L’opera dei soggetti sociali che maggiormente riescono a penetrare nelle realtà rurali, come lo Stato e la Chiesa, ha un peso determinante nella "formazione ed educazione delle folle". Dagli inizi del Novecento fino al periodo fascista il progetto di educazione popolare deve confrontarsi ogni volta con soggetti politici diversi. Se il dibattito sulla cinedidattica e l’opera dell’Istituto italiano proiezioni luminose – caso esemplare per longevità e penetrazione nel territorio – avevano preparato il terreno, l’esperienza cinematografica diventa il principale mezzo del regime per la propaganda e l’instillazione nell’animo popolare dei principi ideologici fascisti. Molto interessante la scheda, ad opera della stessa autrice del saggio, che fa un breve excursus sulla cinematografia ambulante dell’Opera nazionale combattenti.

Conclude il volume un suggestivo (per le prospettive che apre) saggio di Elena Mosconi e Maria Francesca Piredda, Oltre la sala: il cinema all’aperto. Dallo schermo al cielo stellato, il cinema all’aperto assume nel passare degli anni diverse valenze, ma sempre conta la capacità, ineguagliata, dello schermo illuminato dalla proiezione di creare, nonostante la mancanza dei confini architettonici, uno spazio onirico. Se all’inizio del secolo lo spazio aperto del cinema è ancora giardino o caffé dove gli appartenenti a una classe medio-alta compiono il rito del riconoscersi, nel secondo dopo guerra il rito cambia senso, e diventa un modo per ritrovarsi e, come scrivono le autrici " rivivere attraverso lo schermo il senso di appartenenza a una cultura comune e rinfrancare un’identità". Maria Francesca Piredda scrive la scheda finale, dedicata al caso cremonese dell’Auricchio.

 



Lucia Di Girolamo


Copertina

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