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David Lynch

A cura di Paolo Bertetto

Venezia, Marsilio, 2008, pp. 176, euro 12.00.
La collana Sequenze d’autore, edita da Marsilio e curata da Paolo Bertetto, esce in questo periodo con un volume dedicato all’opera di David Lynch. Sei i film analizzati, sei le prospettive adottate. Nell’introduzione Bertetto ripensa al cinema di Lynch come cinema dell’enigma e dell’eccesso, sottolineando che la derealizzazione del reale passa attraverso una continua tensione tra realtà e immaginario, tra realtà e sogno. Le immagini di Lynch sono dominate da forze oscure che premono sul reale fino a determinare illogicità e contraddizione che sovrastano l’esperienza della visione. Lo stupore e lo sgomento che colgono lo spettatore davanti all’universo lynchiano passano attraverso i meccanismi della fascinazione e dell’affabulazione. L’attrazione si nasconde là dove non avremmo mai pensato, persino nella deformità, e la mostruosità si cela in potenza negli oggetti e nei corpi della quotidianità. L’inquietudine e l’angoscia emergono dalla perdita di soggettività dei personaggi, dal loro essere doppi e, spesso, plurali. Un gioco sottile e ambiguo di continuo spostamento tra la somiglianza e la differenza accompagna le relazioni tra i personaggi, chiusi all’interno del mondo filmico come in un prisma, i cui lati riflettono all’infinito la loro immagine deformata, uguale e diversa.

In Eraserhead. La mente che cancella, dedicato alla prima opera di Lynch, Marco Giallonardi si propone di individuare dapprima le figure e le forme che ricorrono come temi forti del film, in seguito sposta l’attenzione sul piano formale, occupandosi dello studio del dispositivo della messa in scena, dell’uso delle componenti audio e video. L’autore del saggio osserva come in Eraserhead Lynch riesca a "creare dei vuoti logici e ritmici, dilatando il tempo e annullando lo spazio propri del racconto cinematografico". Fortunatamente la presenza di un protagonista e di un rapporto causa effetto nell’azione non permette il totale e completo smarrimento. Lo straniamento produce e – per quel movimento binario che caratterizza tutti i titoli del regista – è prodotto dall’espressione dell’orrore più profondo per tutto ciò che genera vita, sesso, procreazione, paternità. Giallonardi nota come anche il livello visivo il terrore della vita informi la superficie del film. Tutta la materia precipita incontrollata verso la distruzione.

Per Velluto Blu Ofelia Catanea parla di "sogno a occhi aperti, un viaggio nell’illogicità dei desideri segreti del protagonista". L’autrice propone una lettura del film all’insegna dell’estetica masochistica, non in termini freudiani, ma tenendo conto dello stile visivo del film e del rapporto spettatore-immagine cinematografica. Un legame che in Velluto blu è basato sostanzialmente su dinamiche affettive, pre-linguistiche, sensoriali. Sono proprio queste dinamiche a determinare l’esplosione dell’estetica masochista. Catanea le spiega in maniera efficace nell’analisi della sequenza centrale del film, segnata dalla prima apparizione del maniaco e dalla tetralizzazione della "scena primaria", momento fondante della dinamica masochista, perché è il primo contatto con l’abiezione da parte del neofita dell’autolesionismo. Da un punto di vista formale l’uso del primissimo piano e del dettaglio esprime al meglio l’estetica in questione. Il ravvicinamento dell’oggetto del desiderio invece di farci penetrare in esso soddisfacendo il desiderio e provocando piacere, lo rendono abietto e crudele.

Per Fuoco cammina con me Enrico Carocci parla di un film in cui a una chiarificatrice – soprattutto in relazione alla serie televisiva – struttura lineare, si accompagna una "serie di trame più sottili, trasversali, talvolta nascoste, che collegano luoghi e momenti diversi del film". L’inquadratura di Fuoco cammina con me è il luogo di un visibile che di dilata nelle dinamiche di una defigurazione di origine baconiana. Le forme, isterizzate, rivelano la stratificazione di universi paralleli soggiacenti alla struttura apparentemente lineare. Al fine di materializzare queste visioni la dilatazione degli elementi accompagna anche l’orizzonte del suono, "dimensione della composizione filmica che contribuisce a intensificare l’immagine".

La sperimentazione di Eraserhead comincia a raggiungere esiti "radicali" in Strade perdute, analizzato da Andrea Minuz. Strade perdute gioca sul rilancio dei processi di significazione sul terreno del racconto. Minuz si interroga, tra l’altro, sull’ intensità della cooperazione richiesta allo spettatore come criterio di valutazione estetica. Concreta e onesta la strada scelta da Minuz, per il quale non si tratta di risolvere l’analisi in una ricostruzione della coerenza, operazione ostica e quasi impossibile, ma di rintracciare il carattere e le forme di tale intensità di cooperazione. L’analisi di Strade perdute si concentra sul frammento, isolando il processo di "sostituzione dei punti di vista" che soggiacciono alle modalità di costruzione dello sguardo all’interno del film.

Barbara Grespi ci parla invece della seduzione di Mulholland Drive, rompicapo dal fascino irresistibile, film proseguito sulla carta stampata con il contributo degli spettatori, che sulla base di dieci indizi forniti da Lynch hanno suggerito la ricostruzione della storia. Una la questione essenziale, chi sono le due protagoniste? Betty Elms e Rita, oppure Diane Selwyn e Camilla Rhodes? Le une a un certo punto diventano le altre, il sogno si fa realtà o la realtà sogna se stessa? Sono due mondi diversi che intessono fra loro intricate relazioni. Tuttavia, la qualità estetica del film risiede soprattutto in quella "incongruenza irriducibile che costringe a ricominciare tutto dapprincipio". L’incongruenza è nella ripetizione, uguaglianza e diversità che si rincorrono sull’onda del perturbante freudiano. La mostruosizzazione diffusa dipende anche in maniera incontrollabile dal vuoto di senso. Il corpo di Rita ne è l’emblema, materia passiva che aspetta di essere riempita da un’identità. Il corpo isterico, espressione di un malessere sottile e tracimante nello stesso tempo, è un corpo poroso pronto ad accogliere ciò che lo circonda e a inondare l’ambiente che lo contiene.

Per Inland Empire Andrea Bellavita riflette su come l’ultimo film di Lynch possa porre problemi di natura ermeneutica. Inland Empire è la rottura di due patti che il regista aveva fatto con il suo pubblico, quello della bella forma e quello della comprensione. Da Elephant Man in un’accezione più classica e lineare fino alla sensualità del barocchismo di Mulholland Drive, la bella forma viene messa in crisi da un’immagine mostruosa nel pieno senso del termine; alla ricerca di una chiave interpretativa si sostituisce un assorbimento totale, lo spettatore non deve più cercare una strada ma è completamente privato della guida di comprensione. Inland Empire alberga in una "dimensione di arborescenza dei livelli narrativi". La proliferazione del tessuto narrativo si concretizza nella "logica rifrattiva del personaggio e nella struttura a domino del montaggio".



Lucia Di Girolamo


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