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Enzo Moscato

Orfani veleni
Scannasurice, Signurì, signurì..., Co'Stell'Azioni, Orfani veleni

Milano, Ubulibri, 2007, pp. 150, euro 16,99
ISBN 9788877482761

Dopo L'Angelico bestiario (1991) e Quadrilogia di Santarcangelo (1999), la Ubulibri pubblica la terza raccolta teatrale di Enzo Moscato: Orfani veleni, titolo che, oltre a rendere omaggio alla prima Compagnia teatrale («L'Orfano veleno») dell'autore, attore e regista napoletano, intende mettere in evidenza una delle principali peculiarità della sua scrittura, ovvero il fatto di voler essere (e riuscire a essere) senza padri e senza storia: una scrittura che, tutta «attorcigliata su se stessa», è come un venenum (nel suo senso etimologico di filtro magico o droga) per chi legge o ascolta, e fa vedere le cose in una luce diversa rispetto a quella consueta, mostra la realtà attraverso un filtro quasi onirico, come se si trattasse di un incubo. Incubo cui - preda di uno stato d'animo spugnoso, da dormiveglia, a metà strada fra l'incredulità e l’estraneità («kafkiani o borgesiani, fate voi») - chi legge o ascolta è invitato ad assistere.     

I testi presenti nel volume sono Scannasurice, Signurì, signurì..., Co'Stell'Azioni e Orfani veleni, e Moscato stesso, nell'Introduzione, li definisce una «strana quadriga» drammaturgica. Innanzi tutto, infatti, si collocano in fasi diverse della produzione teatrale dell'autore: i primi due (Scannasurice e Signurì, signurì…) sono stati scritti tra il 1980 e il 1982; Co'Stell'Azioni e Orfani veleni tra il 1990-2002 e il 1995-2002. Scannasurice e Signurì, signurì… appartengono, quindi, agli esordi della sua carriera: sono in "prosa" (anche se sarebbe meglio dire che sono nella tipica "s-prosa" moscatiana, ovvero nel «doppio "scuncecàto", ammalato, bacato, stordito e "inzallanùto"» della "prosa", intesa come una scrittura «circoscritta, vincolata, "sensica"», composta e ragionevole); raccontano storie (ambientate nei bassifondi partenopei); vedono agire dei personaggi (per lo più napoletani) e sono tutti completi di dialoghi e didascalie. Come direbbe (e in effetti dice) l'autore, appartengono «agli "early stages" della mia vicenda di scrittura. A quella fase in cui, le loro caratteristiche salienti (lingua, eloquio, storie, sottostorie, personaggi, ambienti, presenza di didascalie e descrizioni) li avvicinano "a fortiori" all'universo significante-antropologico-espressivo-Napoli».

Si tratta, tuttavia, di una Napoli «insolita, alquanto fuori dalle righe, antisolare, ventrica, profonda, sostanzialmente insondabile e incircoscrivibile, nei suoi fondamenti, e tantomeno rappresentabile, dunque, o gestibile, in modo univoco canonico»: fresca reduce - ferita, svuotata - dal terremoto del 1980 in Scannasurice e dalla seconda guerra in Signurì, signurì…, si trova infatti «sulla soglia di un rovinar-decrepitar inarrestabile» che è destinato, però, a provocare «l'incancrenirsi (finalmente!) di quel suo stereotipico, folclorico, mandolinico, cartolinico "essere cantabile", che l'ha sempre, sciaguratamente, resa nota al mondo intero». 

Mentre dunque in Scannasurice e Signurì, signurì…vengono proposte delle storie (la tragedia di un travestito nella sua squallidissima stamberga dei Quartieri Spagnoli, e il viaggio - liberamente tratto da quello descritto da Curzio Malaparte nella Pelle - di una coppia di americani nella Napoli appena liberata, fra sciuscià e prostitute), Co'Stell'Azioni e Orfani veleni, l'altra coppia di lavori, si presenta quasi completamente liberata dalla «paccottiglia» dei vincoli «con la Città e la Tradizione».  

Nei primi due testi, dunque, l'autore scende negli Inferi della «Città» e mostra come «le ferite, le faglie, le fratture» provocate negli animi dei napoletani ora dalla guerra, ora dal terremoto, ora dalla «lebbra capitalistica dell'omologazione» (oggi - si potrebbe aggiungere - anche dai rifiuti che la inondano) abbiano ucciso «quella semplicità, spontaneità, vitalità, di gesti e di parole, di azioni e di progetti, che tanti e illustri "forestieri", nei tempi andati e di passaggio per queste contrade, non avevano mancato di ammirare e di invidiare». Agli occhi di chi legge o di chi ascolta viene quindi offerta «la lucida e irrimediabile visione del massacro, dell'eccidio, lo sterminio, non tanto di persone o cose, quanto di idee, emozioni, sentimenti, che tra alti e bassi, per tanti secoli, aveva costituito […] il "modus agendi e cogitandi" del popolo e della città di Napoli». 

Quanto a Co'Stell'Azioni e Orfani veleni, siamo invece di fronte a due testi che non raccontano più niente, che non hanno più niente da raccontare: non sono più né in "prosa", né in "s-prosa", bensì in versi: sono «Poesia». Anche se, come direbbe (e in effetti dice) Moscato, «umilmente», nel suo caso non è altro che una "non-prosa". Non ci sono più né descrizioni, né didascalie, né esemplificazioni, né personaggi, né ambienti, né azioni. Né Napoli, né il dopoguerra, né il 1980. Non c'è nulla. Sembra. «Sembra tutto diluito nell'Informale e Neutro, nell'a-Spaziale e a-Storico». «Poiché l'In-formale, il Neutro, l'a-Storico, sono viscide paludi, su cui nulla si può erigere», l'unica cosa che resta in piedi - (e «miracolosamente», tiene a puntualizzare l'autore) - è il «gigante argilloso della Lingua»: la «particolare e strana Lingua» di Moscato, «non napoletana e napoletanissima allo stesso tempo»; astratta e anche «materica, corposa, deittica, esattissima».    

Liberamente ispirato e dedicato a Jean Cocteau, Co'Stell'Azioni, il cui sottotitolo è S-concerto enfatico per le saline degli s-confinamenti, è un testo (il cui modello è Visites à Maurice Barrés di Cocteau) in cui a parlare sono i morti: vanno a far visita ai vivi, dialogano con loro e si rendono conto di quanto siano poco dissimili, infondo («'O sfastìrio, il disincanto, è uguale a chillu vuosto, / identica è 'a fatica, 'a pena, pe' ttruva' parole / che s'incastrano, precise, cu'chello ca se prova») e di quante cose, soprattutto, abbiano in comune con i poeti, con gli artisti («Il poeta, il poeta, si dice, è come Noi. 'E muorte. / Visita, invisibile, veloce, 'mmiezz’ 'e vivi. / Chistu privilegio sulo lo distingue: / non farnetica, conta, non sta fermo, avanza»).

Orfani veleni, invece, è un «esercizio di de-mascherazione» tratto da Fuga per comiche lingue, tragiche a caso, monologo dedicato a Pulcinella, scritto (su sollecitazione esterna) nel 1990 e composto da numerosi frammenti di varia natura, alcuni ricavati dalla Tradizione (i dialoghi fra Colombina e Pulcinella) e altri - presi in prestito da precedenti lavori moscatiani - risalenti a una vera e propria «es o anti-Tradizione»: l'esterno e l'interno, il noto e l'ignoto, il sopra e il sotto, la memoria e l'oblio sono così chiamati a fondersi e a interagire fra di loro, e a portare avanti, dandosi la parola l'un l'altro, un discorso sulla «Maschera», intesa - nietzschianamente - come uno strumento per proteggersi da ciò che di perturbativo e orrendo c'è dentro di noi. Il protagonista di Orfani veleni, per esempio, «il (cosiddetto) burattino» Pulcinella, si mette la maschera per proteggersi da se stesso, ovvero dalla vera e propria incarnazione della terribilità dell'inconscio: «non stupido re dei maccheroni, non cacasotto dispensiere d'allegria, niente strafottente o ingordo voltagabbana, ma solo un insieme sinistro di segnali, un intreccio, assurdo e surreale, di suoni e di lingue, disinvoltamente spalancati su Qualcosa di Spaventosamente Indefinito». «"Bella" metafora di morte», "bella" perché fa paura, Pulcinella, oggi, «dinanzi al quotidiano imbarbarimento, di fronte all'inarrestabile devastazione di cose e sentimenti» di una città come Napoli, invita gli artisti ad affrontarlo: ad affrontare il tema della morte, per cercare di tramutarlo in «urlo fortissimo di vita, di rispetto per la vita, di ferma custodia della memoria».  

Il libro è molto interessante per i cultori di Moscato e della sua "prosa", "s-prosa" e "non-prosa". Quanto al contenuto dei contenitori (ora "prosa", poi "s-prosa”, e infine "non-prosa"), dato che la comprensione dei testi comincia ad apparire un obiettivo quasi possibile solo verso la terza o quarta lettura, si consiglia vivamente l'astensione al pubblico degli anti-intellettuali, soprattutto se stanchi e stressati. 

 

Giulia Tellini


copertina

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