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Prove di drammaturgia


a. XIII, n. 2, ottobre 2007
ISSN 1592-6680
L’ultimo numero del semestrale Prove di drammaturgia curato da Claudio Meldolesi e Gerardo Guccini, intitolato Le radici della regia, vuole fornire ulteriori spunti di riflessione su un tema, le origini della regia, di rinnovato interesse (recentemente dibattuto anche nel volume La regia teatrale. Specchio delle brame della modernità, a cura di Roberto Alonge, Bari, Pagina, 2007, frutto del convegno interamente dedicato alla questione dal Dams di Torino).

In apertura, con l’intento di offrire un contributo alla conoscenza delle motivazioni sottese all’attività del Teatro d’Arte, Fausto Malcovati e Rossella Mazzaglia propongono la traduzione del racconto che Vladimir Nemirovic-Dancenko fece del suo incontro con Konstantin Stanislavskij nel 1897. L’assenza di traduzioni in italiano delle opere di Nemirovic ha fino a oggi ostacolato approfondimenti sulla sua personalità. A corredo della traduzione, Malcovati traccia un profilo di Nemirovic che gli restituisce una posizione chiave nel Teatro d’Arte non solo per quanto riguarda l’attività organizzativa, ma anche per quella artistica, e pone le premesse per un’ulteriore ricerca che studi "la sua opera registica, con la stessa ampiezza e serietà con cui è stata studiata quella di Stanislavskij".

Dal racconto di Nemirovic-Dancenko prende avvio anche il saggio di Roberta Gandolfi che, sotto la forma di un glossario, individua i tratti comuni alle variegate attività promosse dai piccoli teatri e dai teatri d’Arte diffusi in Europa e in America a partire dalla fine dell’Ottocento, e rimarca il loro ruolo nella costituzione di una rete culturale teatrale in cui la regia ebbe modo di svilupparsi.

Nell’articolo Le mie "radici", Luigi Squarzina offre una testimonianza diretta sulle tensioni culturali che sollecitarono la fondazione e lo sviluppo della regia in Italia.

Tra i principali sostenitori della necessità di reimpostare gli studi sulla regia a partire dall’individuazione degli ambiti e delle tecniche della protoregia ottocentesca, Franco Perrelli focalizza il suo intervento sull’operato di August Lindbergh, "förste regissör" al Teatro Reale di Stoccolma nel 1884. Tre anni prima della fondazione del Théātre Libre di Antoine, Lindbergh attuava delle strategie che denotano "la costituzione di una nuova dimensione estetica e di mestiere" relativa soprattutto alla gestione delle masse in scena. Lungi dal voler anticipare la nascita regia, Perrelli evidenzia la complessità e la molteplicità dei processi anche periferici che precorsero la fondazione della regia vera e propria, dei quali la storiografia tradizionale non tiene conto.

Anche Annalisa Sacchi mette in discussione gli schemi storiografici tradizionali e propone un’analisi della Thérese Raquin di Zola attraverso la categoria del "basso- materialismo" (concetto, espresso da Georges Bataille, che riduce la materia alla sua consistenza abietta, scatologica).

Gerardo Guccini si sofferma sull’operato del metteur en scène Albert Carré (1852-1938) che nei suoi allestimenti (in particolar modo di Carmen e delle opere pucciniane Bohème, Tosca e Madama Butterfly) avrebbe trasferito nel contesto operistico molte delle soluzioni adottate da Antoine al Théātre Libre (come l’attenzione all’integrazione tra attori e scenografia e alla gestione delle masse, intese come insieme di individui singolarmente connotati) a sua volta debitore del teatro dei Meininger.

Per Maria Ines Aliverti il recente dibattito sulle origini della regia scaturisce dal desiderio di "definire il senso e i limiti" di una fase storica del teatro di cui si avverte l’epilogo. La progressiva consapevolezza dell’esaurirsi del fenomeno spinge a voler isolare le specificità della regia novecentesca, che per Aliverti consiste nella consapevolezza di appartenere a due tempi: "un tempo storico" che corrisponde alla ricerca di coerenza simbolica "nel qui e ora", e "un tempo originario" in cui la coerenza simbolica era esperienza e sapere condiviso.

Ferdinando Taviani constatando l’uso spesso velletario e svuotato del termine regia rievoca, attingendo ai personali ricordi di studioso, le discussioni "d’una quarantina d’anni fa, quando ci si accaniva per circoscrivere la nozione di regia". Nell’epoca in cui si tentava di dare delle basi alla neonata disciplina della Storia del teatro, la regia veniva promossa a unitario personaggio storiografico. In scritti più recenti, come quello di Luigi Squarzina, Il romanzo della regia (Pisa, Pacini, 2006) e quello di Mirella Schino (La nascita della regia teatrale, Roma-Bari, Laterza, 2003), la questione dei contorni della regia viene invece travalicata. Taviani individua nell’atto "di spingersi avanti" il gestus base dei diversi movimenti di rinnovamento teatrale novecenteschi che non devono essere necessariamente ricondotti a una matrice storiografica unitaria.

Pubblicando un saggio compreso nel progetto di ricerca sulla "Ricezione del teatro della Grande Riforma Europea in Italia", Mirella Schino riprende il tema della continuità e discontinuità tra Otto e Novecento per sottolineare che, sebbene oggi il termine regia abbia un senso "debole" limitato alla responsabilità dell’insieme dello spettacolo, quando fu coniato indicava una novità assoluta in riferimento al teatro dei Maestri. Ripercorrendo l’arrivo nella nostra penisola degli spettacoli di Grotowski, prima, e di Barba, poi, attraverso gli studi che allora pubblicarono Marotti, Taviani, Cruciani, Ruffini, Meldolesi, Savarese e altri, la studiosa individua in "un effetto come di danza" l’elemento distintivo del teatro dei Maestri, che svincola lo spettacolo dalle logiche mimetiche e riproduttive.

Dall’importanza del movimento, "espressione sensibile della vita", muove anche l’indagine di Franco Ruffini che si prefigge di valutare le ricadute che l’incontro con la danza di Isadora Duncan ebbe sul teatro di Craig.

Cesare Molinari si chiede se la regia, nata indubitabilmente come fenomeno "di rottura", consistette nella "scoperta di una nuova e inedita funzione" o piuttosto nella "proposta di una nuova poetica" e, dopo aver ripercorso l’esperienza di Antoine e gli scritti di Harold Clurman, John Gielguld, Jean Louis Barrault e Gordon Craig, conclude che la maggiore novità del teatro novecentesco fu l’aver elevato i registi a "artisti di teatro". A conferma della sua affermazione apre una panoramica sulla terminologia impiegata per indicare in tempi e luoghi diversi la funzione del regista, dal didaskalos dell’antica Grecia all’alternarsi di producer e director nell’Inghilterra degli anni Sessanta, al metteur-en-scène francese. Infine ricorda che la funzione registica in teatro si è andata precisando parallelamente al suo traferimento nel cinema, ambito in cui era diventata molto più "specifica e insopprimibile".

 

Emanuela Agostini


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