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Claudio Vicentini

L'arte di guardare gli attori. Manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione


Venezia, Marsilio, 2007, pp. 256, € 19,00
ISBN 8831792962

Ci sono saggi con cui gli studiosi di una determinata materia devono fare a lungo i conti. Oggi che lo studio dell’attore sta coinvolgendo sempre nuovi soggetti, anche provenienti da discipline un tempo assai sospettose nei confronti dell’argomento, il saggio di Claudio Vicentini si candida a diventare un punto di riferimento certo. Anche per l’assenza editoriale, evidentissima, che un libro come L’arte di guardare gli attori (in libreria il 21 novembre) viene all’improvviso a colmare. E per la presenza di un sottotitolo che promette di abbattere gli steccati disciplinari fra teatro, cinema e televisione proprio in nome della comune presenza dell’attore. Aria nuova di cui si avvertiva davvero il bisogno.

In effetti, sono tante le novità che il volume mette in campo. Anzitutto la precisa volontà di parlare  di tecnica della recitazione non a studiosi né ad aspiranti attori ma ad un pubblico anche più ampio:  certamente studenti, ma anche semplici appassionati di teatro, cinema e televisione, senza peraltro che gli studiosi debbano trovare, all’interno del percorso scelto, una ripetizione insapore di vecchi concetti. Qui evidentemente la novità sta nell’impresa (a memoria finora intentata, almeno ad alto livello). I termini tecnici sono sorprendentemente pochissimi. Gli esempi, invece, molti. L’altra sorpresa è costituita dall’impianto del volume: la scansione delle tesi è avvolgente; si è stretti in una spirale argomentativa garbatissima, ma che non lascia spazio a repliche. Non solo per come Vicentini affronta il tema - per come lo indaga anche nelle più minute pieghe – ma anche perché riparte sempre (siano gli esempi tratti da Lessing o Engel, Cechov o Fo) a partire dalla storia. Storia della drammaturgia, storia delle teorie dello spettacolo moderno, storia del cinema. Ma intanto le prime centocinquanta pagine del libro servono a definire, delineandole con massima precisione, le due fondamentali tecniche della recitazione che si precisano e distinguono a partire dalla seconda metà dell’ottocento: quelle dell’immedesimazione e quelle dell’imitazione.

Per definire questi due ponderosi concetti (non solo di tecnica si parla, è evidente) Vicentini parte da un esempio così semplice e incisivo che chissà in quanti, d’ora in poi, riprenderanno: come recita un dramma mentre rifà il letto - sulla scena, davanti all’obiettivo della macchina da presa o della telecamera - un attore che ricorre all’immedesimazione e, al contrario, un attore che attinge alle tecniche dell’imitazione. Gli esempi sono particolarmente calzanti: scuola cinematografica americana, cioè actors studio (Il grande freddo di Lawrence Kasdan) e scuola dialettale napoletana (Massimo Troisi in Scusate il ritardo, con Eduardo nel primo atto di Filumena Maturano a sostegno).

Di esempio in esempio Vicentini mostra tutti i particolari che delimitano le due scuole e, al momento giusto, quando ormai al lettore pare di aver capito proprio tutte le differenze, inizia a mostrare quanto sia vantaggioso, per ogni attore, ibridare la propria tecnica con quella “avversaria”. Con Stanislavskij posto al centro dell’indagine, la deferente offerta di tregua diventa eloquentissima: proprio lui, il campione dell’immedesimazione, sceglieva truccature degne di un Kean, di un Laurence Olivier. E l’ampio, decisivo apparato iconografico (reperito da un variegato staff di collaboratori) ce lo mostra in modo indubitabile.

Così, evidentemente, la parte più importante e interessante, agli occhi di uno studioso, diventa la seconda.  Dove Vicentini fa entrare, con la dignità che il lunghissimo dibattito teorico merita, i tipi (perfino il cinematografico type-casting) e i caratteri (la parte sul comico è molto istruttiva), ma anche sottigliezze tecniche come il montaggio delle espressioni per gli interpreti imitativi (quanto lavoro hanno ancora da fare gli studi di cinema!). Un paragrafo eloquente è dedicato alla sensibilità fittizia quale correttivo indispensabile alla freddezza insita nelle  tecniche dell’imitazione: il pensiero corre al calore rovente della Magnani. Per il finale Vicentini sceglie, giustamente, di mettere l’accento sull’indispensabile lavoro dello spettatore sull’attore. Chiuso il libro si è conquistati dal disegno complessivo non meno che da ciò (è molto) che si è imparato.

Chi scrive si occupa dell’attore cinematografico: perciò gli ultimi capitoli erano i più attesi. Sulle prime la lettura provoca qualche fremito, perché Vicentini non vuole riconoscere una propria specificità all’attore cinematografico, né a quello teatrale. L’esperienza dà ragione a lui (altrimenti non ci sarebbe stato, dalla fine dell’ottocento, quell’inesausto via vai degli stessi interpreti dal teatro al cinema e poi viceversa) ma la precipuità dei campi di indagine alcune differenze le esige. Infatti – con calma - arrivano, una dietro l’altra. Così, quasi a rinnegare ciò che precedentemente aveva affermato, Vicentini può affermare che la recitazione cinematografica «si fonda sulla capacità dell’interprete di recitare insieme al gioco della macchina da presa». Verissimo, ma spesso compito assai arduo per l’interprete teatrale.

Per lo studioso di cinema in ogni caso il paragrafo decisivo è quello sulla recitazione passiva (dell’attore classico hollywoodiano, aggiungerei): davvero straordinario. Così mi sia consentita una brusca intrusione a fine disamina: no, non è vero che la recitazione passiva sia la più perfetta, tecnicamente parlando, per le precise esigenze della lavorazione del film. Perché ogni film è un’avventura che dipende da modi e mezzi di produzione stabiliti da un preciso contesto (storico), e certi grandi campioni delle due grandi scuole teatrali nella seconda metà del novecento hanno saputo fare di più e di meglio dei grandi “passivi” classici. Le Magnani (imitative), i Brando (immedesimativi)… Ma parliamone. Per favore continuiamo a parlarne.



di Cristina Jandelli


copertina

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Claudio Vicentini,
L'arte di guardare gli attori (saggio)


 
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