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Comunicazioni sociali
Immagini dello spazio e spazio della rappresentazione. Percorsi settecenteschi fra arte e teatro

anno XXVIII, nuova serie, sezione teatro, n. 2, maggio-agosto 2006, pp. 114, euro 14,00
ISSN 0392-8667

Un’intenzionalità precisa e un approccio dal taglio chiasmatico,  quelli del numero monografico Immagini dello spazio e spazio della rappresentazione, denunciati in apertura di volume nella presentazione dei due curatori, Andrea Spiriti e Giovanna Zanlonghi, che mirano a investigare i percorsi settecenteschi tra arte e teatro partendo da due concetti fondamentali, ormai entrati a far parte del bagaglio metodologico di queste discipline grazie alle lezioni, in primis, di Francastel e Zorzi. Da un lato, dunque, la centralità del concetto di spazio nel Settecento in particolare per l’area italiana; dall’altro l’assunzione che i due universi linguistici, artistico e teatrale, proprio in questo secolo vanno costituendosi attraverso un reciproco confronto e un fertile interscambio.

Ne è prova, secondo lo stesso Spiriti, il particolare processo di interazione degli artisti lombardi, a cominciare da Diego Francesco Carloni, con gli Erblände asburgici, che segna la nascita dello stile rococò e, conseguentemente, il sostanziale passaggio dalla logica barocca dello spazio utilizzabile a quella di luogo finalizzato, che si combina con l’accentuazione delle sue funzioni ludiche. La goldoniana canonizzazione letteraria della villeggiatura trova il corrispettivo architettonico nella diffusione delle “ville di delizia”: gli ambienti ariosi, in rapporto stretto con lo spazio naturale e suggestivo del bosco e del rudere, liberati dal sosiego seicentesco e arredati con uno straordinario numero di mobili e bibelots, sono testimonianza di una mutata sensibilità artistica che predilige il miniaturismo, il gusto del dettaglio, la ricerca di una dimensione recitativa  dello spazio dai toni morbidi e discorsivi.

Il giardino del Nymphenburg a Monaco di Baviera è emblematica espressione della nuova Bequemlichkeit settecentesca ma anche concretizzazione della teatralità del paesaggio naturale mediata da fantasie architettoniche e botaniche. A ricostruire la genesi barocca del giardino, enucleando inoltre le sue precipue caratteristiche spettacolari, è dedicato l’intervento di Pietro Delpero. Indiscusso il ruolo centrale del committente, Maximilian II Emanuel, non solo ispiratore ma vero e proprio regista dell’allestimento dello spazio agreste, che si inserisce così nel complesso cerimoniale politico di celebrazione della magnificenza principesca.

A partire dalla seconda metà del secolo, un medesimo programma di celebrazione dinastica si individua anche nella Lombardia asburgica. L’ambiziosa configurazione del parco della residenza imperiale a Varese, nota Laura Facchin, filtrando i modelli tipologici dei giardini viennesi di età teresiana attraverso una cultura figurativa ancora fortemente legata a stilemi rocailles, rispecchia l’obiettivo di rinnovamento dello stile in direzione classicista ampiamente promosso da Francesco III d’Este che culminerà, dopo alcune sperimentazioni in area mantovana, nel cantiere del palazzo ducale di Milano.

Sul tema della centralità della villa e dei suoi giardini, luoghi di divertimento e di otium dalla forte connotazione teatrale, nell’estetica settecentesca, si occupa anche il saggio di Vittoria Orlandi Balzari, che assumendo come exempla gli spazi delle residenze della famiglia Verri tra Biassono e Milano evidenzia la stretta connessione tra prospettiva spettacolare, retorica architettonica e decorazione pittorica. L’uso della quadratura e del trompe-l’œil genera sottili inganni spaziali, i lati della stanza si moltiplicano attraverso l’uso di finte colonne, balconate e trabeazioni scandite da elementi decorativi, mentre la sala diventa luogo scenografico dove i padroni di casa e i loro ospiti agiscono come su un vero e proprio palcoscenico.

Molteplici, eterogenee visioni del teatrale e del teatro che coesistono, si intersecano in un sottile, allusivo gioco di specchi al cui interno si collocano fenomeni non sempre legati ad una effettiva pratica scenica. Come chiarisce Renzo Guardenti, al concetto di «teatro-in-forma-di-libro» si affianca nel corso del Settecento quello di «teatro-in-forma-di-quadro», una visione cioè fondata sull’idealità che si struttura come fenomeno spettacolare autonomo capace di influenzare il gusto e l’immaginario collettivi a livello europeo. Si pensi alle risonanze pittoriche derivate dall’esperienza dell’Ancien Théâtre Italien a Parigi nell’opera dei Bonnart, di Simpol, di Picart e, soprattutto, di Claude Gillot e Jean-Antoine Watteau; ma anche, seppure ad un diverso livello di diffusione e fruizione, alle cospicue produzioni di porcellane realizzate dalle celebri manifatture di Meissen e Nymphenburg. In ambito anglosassone, invece, il punto di congiunzione tra pratiche spettacolari e riflessi figurativi è individuato nei grandi cicli pittorici di William Hogart, da A Harlot’s Progress (1731) al noto A Rake’s Progress (1734), al Marriage à la mode (1744).

La riflessione di Gerardo Guccini si sofferma sulle complesse evoluzioni del “teatro” e sulla dinamica dell’eclettismo bibienesco, che frequenta la scenografia tanto quanto la pittura su tela, la trattatistica, la didattica, si sviluppa con moto verticale a partire dai due principali sistemi artistici, pittorico e architettonico, grazie alla particolare concezione artigianale del sapere, inteso come capacità di “apprendere ad apprendere”. Esplicativa è l’analisi del passaggio dalla sala alla scena delle soluzioni della quadratura, elemento fondamentale della sintassi pittorica del secolo. Non più le sale di chiese, collegi, androni, edifici patrizi, ma il palco è luogo privilegiato dove replicare l’originale funzione delle architetture dipinte, potenziandone le gamme spettacolari e sostituendo alla tradizionale qualità metaforica della scena una articolata carica metonimica. Emancipata dalla condizione di sfondo o di cornice, la «scena per angolo» si trasforma nella pietra di volta di quel teatro della visione che non coincide con l’ambiente drammatico, ma si dilata nel mondo diegetico al di là delle azioni rappresentate.

Il significato simbolico del luogo scenico, in bilico tra pura spettacolarità e valore estetico-cognitivo, è al centro di quell’articolata teoresi dibattuta tra conoscenza razionale e intuizione artistica che tenta di rintracciare i principi unificatori delle varie forme rappresentative. Fondamentale, per Lucia Valcepina, il ruolo dell’intellettualità francese, in primis Rousseau e Diderot, che propone un approccio multidisciplinare e un’analisi comparata delle diverse arti pur mantenendo costante l’attenzione agli elementi visivi dello spettacolo e avvalendosi della metafora pittorica come privilegiato strumento valutativo. L’attenzione nei confronti dello sguardo è del resto il filo conduttore della speculazione settecentesca anche in ambito italiano, dove, da Riccati a Conti a Metastasio, l’analisi del processo ricettivo si affianca ai tentativi di epurare la scena da una spettacolarità fine a se stessa grazie all’affermazione di una dimensione drammatirgica dell’arte che si imponga su tutte le componenti della messinscena.



Maria Fedi


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