drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti

cerca in vai


Cineforum
Rivista mensile di cultura cinematografica

Cineforum n. 462, anno 47, marzo 2007, euro 7.20
Il numero di «Cineforum» del mese di marzo 2007 dedica lo speciale di apertura a David Lynch e al suo ultimo film INLAND EMPIRE, considerato espressione della poetica lynchiana, nella sua summa e nel superamento dei propri assunti. Ben otto saggi sono contenuti in questo speciale dal titolo David Lynch apre il futuro.

Ciò che mette in gioco INLAND EMPIRE, film di lunghezza superiore alla tre ore, girato con tecnologie digitali (piccole e leggere macchine Sony PD – 150), non è soltanto lo scardinamento della struttura narrativa (che qui, più di ogni altro film di Lynch, pare impossibile a ricomporsi), ma soprattutto è il potenziale segnico delle immagini. Sebbene la struttura del film non possa essere considerata arbitraria, ovvero rispondente al nonsense – poiché una simile affermazione presupporrebbe che il regista segua la logica velleitaria del capriccio personale –, pur si direbbe che Lynch non è tanto interessato a far ripercorrere il proprio originario soggetto, quanto a crearne altri individuali che germinano in ogni singolo spettatore.

Il saggio di Andrea Bordoni e Matteo Marino sottolinea proprio questo intervento diretto cui il pubblico è chiamato nella direzione dell’elaborazione del materiale del film, materiale che risponde a una logica extra – diegetica, prettamente semantica, e che avanza sulla base di rapporti di contiguità e analogia fra le immagini. La diretta chiamata dello spettatore viene evidenziata anche da Luca Malavasi, che vede nell’uso del supporto digitale (e nelle proprietà tecnologiche ad esso legate) una volontà di far coincidere punto di osservazione e spazio di presenza e vede nella prossimità dell’immagine (soprattutto nei numerosi primi piani) la ricerca di un rapporto tattile e di un coinvolgimento diretto dell’osservatore. Il film si traduce quindi in un’esperienza sensoriale, il cui racconto a parole naufraga nelle intuizioni irrazionali, nell’accumulazione delle sensazioni, nell’associazione libera. La visione del film di Lynch – ci suggerisce Fabrizio Tassi – ci riporta a un cinema primitivo, prenarrativo, delle attrazioni, a un cinema vissuto come esperienza epidermica, anzi, "sotto la pelle". La progressiva stratificazione di una storia che affonda nell’altra – dice Chiara Borroni – costruisce un labirinto metarappresentativo le cui porte aprono spazi percorribili in un’unica direzione: verso la profondità, di un mondo misterioso, perturbante, disturbante, fantasmatico, nelle minacciose "stanze degli inferi", come sottolinea Roberto Chiesi. Il saggio di Anton Giulio Mancino cerca di ripercorrere le distinzioni di genere che già dal titolo del film mostrerebbero una polarità significante e strutturante: l’universo rappresentato è prepotentemente femminile, interpretato dall’attrice–feticcio Laura Dern (anche co-produttrice del film), che si addentra (in-land) nell’autoanalisi, il cui territorio (empire) è segnato da modelli rappresentativi e pratiche linguistiche maschili, ricordiamo infatti che INLAND EMPIRE è anche un luogo reale, una zona della California, separata da Los Angeles e da Hollywood, il cui cinema costituisce l’ultima eco, riferimento implicito.

Il secondo speciale di questo numero è dedicato al film di Clint Eastwood, Lettere da Iwo Jima, con due saggi, rispettivamente di Adriano Piccardi e di Giuseppe Imperatore.

Secondo capitolo del conflitto sul Pacifico tra Giapponesi e Americani, il film è costruito su un ribaltamento delle prospettive in gioco: non tratta soltanto il punto di vista dei Giapponesi, dopo aver mostrato quello degli Americani – scelta che inevitabilmente porta con sé, poiché non prende nessuna posizione schierata, la frantumazione del concetto di nemico (chi è nemico di chi?) –, ma mostra anche le due facce della stessa medaglia: da un lato la strumentalizzazione propagandistica di alcuni episodi della guerra, che di essa diventano emblemi di un falso messaggio sociale, dall’altro una guerra tutta tracciata dai rotti legami con i famigliari rievocati nelle memorie dei soldati e nelle loro lettere mai consegnate.

Se da un lato Flags of Our Fathers si concentra sulla costruzione retorica della fabbrica del consenso che si appropria di falsi eroi e li erige a emblema della vittoria ideologica, dall’altro Letters from Iwo Jima conduce al particolare e all’intimo dei personaggi, rappresentando i tormenti dell’essere umano che fa esperienza dell’insensatezza e dell’assurdità della guerra. I film sono complementari e dialogano tra loro. Il passaggio dalle bandiere alle lettere mostra continuamente una reversibilità degli aspetti e dei valori messi in campo: famiglia, patria, potere. Ed è proprio alla luce di questo secondo film che alcuni elementi del primo possono essere interpretati meglio o perlomeno completati. I padri delle "belle bandiere" sono simbolo di un potere avido e di una patria matrigna disposta a servirsi dei propri figli e del loro sacrificio pur di autolegittimarsi. Anche Letters, però, parla di padri, ben sottolinea Giuseppe Imperatore: padri prossimi alla morte, che scrivono ai loro figli; padri che sono anche uomini di potere, come il generale Kuribayashi.

Il potere acquista così i caratteri umanissimi della pietas, della compassione e della dignità, senza la retorica dell’eroismo, e la patria diventa la madre terra, la solforosa isola di Iwo Jima, che accoglie nella parte più profonda di sé i suoi figli, con le loro paure e le loro fragilità.

Il terzo speciale di questo numero, dal titolo Werner Herzog: il trasparente e l’ottuso, è tanto speciale da avere una copertina tutta sua e da essere chiamato "Cineforumbook". Si tratta di un approfondimento, uno sguardo unitario sul cinema di Herzog che segue una struttura a parole – chiave, voci cardine rappresentative della poetica del regista, in occasione dell’uscita di un Dvd Box, contente quasi tutti i suoi documentari.

Citiamo solo alcune di queste parole chiave partendo dal binomio principale del cinema di Herzog: fiction/documentario, descritto nel saggio di Francesco Cattaneo. Questi due termini non costituiscono per il regista realtà contrapposte, ma sono generi che si compenetrano. Herzog infatti, nel momento in cui gira un film di finzione, non prescinde dalla vita della troupe, dall’esperienza del set, dalla componente di realtà che è propria del processo del film. Dall’altro lato il cinema documentario segue una precisa intenzione espressiva, che supera l’immediatezza del reale per esprimerne il senso, l’intima verità delle cose. Egli stesso dice infatti: «Spero proprio di essere uno di quelli che contribuiscono a seppellire definitivamente il cinéma vérité […] Per me la linea di demarcazione tra finzione e documentario semplicemente non esiste: sono tutti e solo film. Entrambi giocano con "fatti", personaggi e storie allo stesso modo. In effetti considero Fitzcarraldo il mio miglior documentario». (Werner Herzog, Herzog on Herzog, p. 240)

L’altro binomio che vorremmo citare è natura/uomini, sviluppato negli articoli di Bruno Fornara e Giuseppe Imperatore. La natura per Herzog è il luogo da scoprire: giungla, deserto, abisso e cielo sono spazi in cui la verità si nasconde e il cinema si fa sguardo di ricerca dei segni che celano il mistero. Anche gli uomini nel cinema di Herzog sono guardati come paesaggi: uomini al limite della normalità, soli, isolati, nascondono una verità, il loro volto e le loro azioni sono inquadrati come luoghi da esplorare. Di nuovo due realtà che si compenetrano, un dualismo che viene superato nella direzione della ricerca di "qualcos’altro".

Soggiacente a tutti questi termini chiave c’è il binomio cardine del cinema di Herzog: physis/metaphysis. Nonostante lo sguardo del regista di Monaco si possa definire fenomenologico (cioè continua a interrogarsi sull’"esserci delle cose"), il risultato estetico di questo processo conoscitivo e metodo creativo è l’esplorazione dell’"ignoto spazio profondo" che porta Deleuze, ne L’immagine – movimento, ad affermare che Herzog è il più metafisico degli autori di cinema.


 

Anna Gilardelli


Cineforum n. 462, anno 47, marzo 2007

cast indice del volume


 



 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013