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Cinecritica
Periodico di cultura cinematografica a cura del SNCCI

Cinecritica, anno XI, n. 44, ottobre-dicembre 2006, euro 6,00

A Mario Soldati, scrittore per vocazione e regista per mestiere, il numero 44 di "Cinecritica" dedica un corposo speciale. Cinque brevi saggi, sospesi tra acume critico e amore spassionato, come il caso di Portava scarpe inglesi che avevano fatto il giro del mondo… di Luigi Faccini, racconto romanzato dell’incontro di un giovane autore con un grande vecchio del cinema italiano. Solo qualche frase del bell’omaggio che Faccini ha fatto alla memoria del regista de La Provinciale: "Vedevo bene lo sfregare dei suoi calcagni nudi contro il bordo addomesticato del cuoio. Sentivo bene il cigolio delle suole che dominavano le radici sporgenti del suo giardino marinaro. Aveva tendini d’acciaio quell’uomo…". Un tenero ricordo su cui domina l’immagine di un uomo fuori dal comune, capace di mantenersi coerente e di scegliere di non allinearsi a movimenti, scuole di pensiero o di stile. Forse è stato quest’atteggiamento, letto come una mancanza, a far pesare sulla sua opera opinioni troppo prevenute, poco libere di riconoscere i meriti di un autore che il mestiere del cinema lo sapeva fare, e bene. Troppo spesso l’attività cinematografica di Soldati viene considerata accessoria rispetto a quella letteraria; con uno sguardo superficiale e una pigrizia di giudizio è relegato tra i calligrafici, a cui riservare solo qualche pagina nei manuali di Storia del cinema. Eppure come rileva Bruno Torri, è stato, tra i registi del Calligrafismo attaccati da De Santis sulle pagine della rivista "Cinema", quello salvabile, nonostante l’eccesso della bella forma. Eppure è proprio questa bella forma che rivela quanto Soldati avesse compreso il cinema come arte della visione, e allora Piccolo Mondo Antico o Malombra non sono solo adattamenti delle opere di Fogazzaro, ma anche e soprattutto spazi di visione attraverso cui il cinema tocca i territori della pittura e del teatro, senza fermarsi alla sola declinazione della prospettiva letteraria. Sempre sull’incontro tra vecchie e nuove generazioni di registi è basato l’intervento di Franco Giraldi, E’ il mio miglior film, in cui racconta la genesi de La giacca verde, film del 1980 basato su un racconto di Soldati, in cui lo scrittore prende spunto da un momento particolare della sua vita, quando nel 1943, in fuga da Roma insieme a Dino De Laurentiis, si ritrova a lavorare a Radio Bari. Il tema della fuga sembra caratterizzare gli anni Quaranta, nel 1948 infatti gira Fuga in Francia, film centro della riflessione di Anton Giulio Mancino intitolata A proposito di Fuga in Francia: neorealismo, politica, compresenza. A dir poco illuminante la chiave di lettura di Mancino, soprattutto se usata per comprendere l’intero periodo storico nel quale il film è collocato, Fuga in Francia è un "film politico italiano della compresenza". Compresenza di spinte diverse, a volte anche contrastanti, che agitano la società italiana di quegli anni. Il film riesce "ad articolare una serie di contraddizioni. Le rende presenti. E compresenti". La prontezza di Soldati nel capire la realtà circostante e di intuire dove possano portare le novità cinematografiche, anche se sconvolgenti, caratterizzano il Soldati critico e spettatore, di cui ci parla Roberto Chiesi in Soldati spettatore e critico dell’inferno di Salò. Il 30 gennaio 1976 esce su "La Stampa" un articolo significativo dal titolo Sequestrare "Salò"?, Soldati aveva fatto appena in tempo a vedere il film, perché all’indomani dell’uscita la censura lo aveva ritirato dalla circolazione. Perché? Si domanda lo scrittore. I due registi e uomini di letteratura si conoscevano, anzi i set dei film Soldati hanno rappresentato, in un periodo di ristrettezze economiche, un certo sollievo per il poeta friulano in fuga dalla propria terra. Soldati racconta di aver sentito fin dalle prime immagini che si trattava di un film tragico e magico nello stesso tempo, individua alcuni caratteri stilistici fondanti, come l’accumulazione e la correzione ironica. Come osserva Chiesi, Soldati si sofferma sul ricorrere dei simboli e su una riflessione sul potere, che nel film veste i panni dei gerarchi fascisti, ma in realtà il pericolo va molto al di là di quella contingenza storica, la vertigine dell’umanità si affaccia sul precipizio di una occulta volontà di potere, di cui non si vedono i limiti perché non se ne conosce l’origine. È in ogni uomo e forse per questo la visione di Salò, allora (Soldati racconta di aver studiato le reazioni del pubblico) come adesso ci lascia sempre turbati. 

Angela Prudenzi è autrice di una breve intervista a Sofia Coppola, una figlia d’arte che diventa sempre più presente nel panorama del cinema d’oltreoceano. Gustosissimo, nella sezione "Iniziative", l’intervento di Massimo Oliviero su erotismo e oscenità nel cinema holliwoodiano. La domanda è questa, potevano i puritani Stati Uniti, nell’epoca d’oro del loro cinema, tollerare l’uscita dai limiti delle buone regole del racconto e lo sconfinamento verso i territori del proibito? Parrebbe di no, visto che un autore come Von Stroheim la cui opera è piena di smagliature di questo tipo che (cito dall’articolo) "faticano a ricucirsi in tempo" è stato rifiutato da Holliwood. Se si deve osare in America lo si può fare solo se ci si chiama Billy Wylder e si nasconde la sostanza "perversa" del cinema holliwoodiano sotto la patina briosa della commedia. Se l’anima del cinema americano è sempre stata perversa e nella sostanza si è sempre cercato di nascondere i pruriginosi desideri di una società perseguitata dal senso di colpa, se Stroheim è stato troppo presuntuoso nel voler ostentare, Wylder indovina la strada giusta perché ostenta facendo finta di nascondere, di dire e non dire, pensiamo alle innumerevoli allusioni sessuali di Quando la moglie è in vacanza.

Il suggestivo intervento di Antonio Costa, Francesca, Lyda, Diana e le altre. Pietro Bianchi e la storia del cinema muto, è un omaggio a Pietro Bianchi critico d’altri tempi, un uomo che la critica la riteneva un fatto personale, una partita senza fine tra sé e i suoi ricordi. Significativa la definizione che Costa dà di Bianchi come di un critico indisciplinato, che per parlare della diva Bertini parte da Caravaggio, finisce a Berenson e riesce a far tornare sempre i conti, perché Berenson non amava in Seicento e per questo la casa di Francesca poteva essere addobbata con opere dal valore inestimabile. Solo Bianchi lo poteva fare, e non perché a lui fosse concessa la licenza della digressione, che se usata male tanto danno può portare agli scritti di critica o di storia, ma perché il cinema Bianchi lo aveva incontrato in tempi lontani dalle multisale, in un’atmosfera bertolucciana da Novecento, quando si proiettava nelle aie di vecchie cascine, instancabili e industriose di giorno, magiche sale cinematografiche di sera. Il cinema per Bianchi era un ricordo personale reso concreto sulla pagina da una capacità di raccontare e ammaliare il lettore, senza tralasciare però di scegliere l’efficacia della sintesi, come nei ritratti di alcuni protagonisti del muto.

Questo numero di "Cinecritica" è ricco di atri saggi dagli spunti interessanti dei quali può essere utile riportare i titoli: Rivolte e rinnovamento del nuovo cinema argentino di Nicola Falcinella; L’identico e il doppio nel cinema di Daniele Guastella; Saudade e muto cinema di parola in Manoel De Oliveira di Francesco Saverio Nisio; Bambini sotto la tenda del circo, perplessi di Maurizio Fantoni Mannella; Pippo Delbono: La rivoluzione in movimento di Mariella Cruciani; I confini dell’Ovest: le riletture di Brokeback Mountain e le Tre sepolture di Marianna Marino.

Lucia Di Girolamo


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