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Cineforum
Rivista mensile di cultura cinematografica

n. 461, anno 47, gennaio-febbraio 2007, euro 7.20
Il numero 461 di «Cineforum», il primo del 2007, a copertura dei mesi gennaio e febbraio, si apre con un "editoriale" di Giorgio Cremonini, Schermo, schermo delle mie brame…, che intende dare un quadro delle scelte di politica culturale che coinvolgono Feste e Festival del Cinema in Italia. Cremonini fa un bilancio delle grandi manifestazioni cinematografiche e delle polemiche che spesso avvolgono questi grandi eventi, prima, dopo e oltre i loro contenuti e le loro reali proposte culturali. Se la fine dell’anno 2006 si era chiusa con le valutazioni sulla nuova Festa di Roma contrapposta alla ormai storica Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il 2007 si apre con le polemiche legate al Torino Film Festival, raccolto sotto l’egida amministrativa del Museo Nazionale del Cinema di Torino, dove la nomina a nuovo direttore della manifestazione torinese viene chiamato Nanni Moretti, scatenando reazioni a catena tra il professor Gianni Rondolino, presidente dell’Associazione Cinema Giovani e fondatore del Torino Film Festival, Alberto Barbera, direttore del Museo Nazionale del Cinema, e il neo nominato direttore Nanni Moretti.

Tra dimissioni, ipotesi di scissione, allontanamenti e ritorni, la situazione rientra e la nomina di Nanni Moretti a direttore del Torino Film Festival 2007 viene presentata ufficialmente in un’altra vetrina internazionale di prestigio, la 57’ Berlinale.

La questione centrale delle polemiche non è tanto la qualità delle idee, la proposta culturale appunto, quanto la capacità di questa stessa proposta di sapersi declinare all’interno di alcune regole di mercato, che guardano ai numeri: delle presenze, degli incassi, delle rassegne stampa, più che dei film finalmente distribuiti nelle sale. Se la vita del prodotto cinematografico vede nella sala il suo momento di lancio sul mercato, trovando come luogo privilegiato di consumo la visione individuale e casalinga, ben si comprende che il problema reale dei festival è un "problema di bottega", legato ai finanziamenti degli enti pubblici e agli investimenti degli sponsor privati.

Le luci della sera, ultimo film di Aki Kaurismaki, è punto di partenza degli approfondimenti di Pier Maria Bocchi e Rinaldo Censi dal titolo Moralità di Kaurismaki.

Pier Maria Bocchi attraverso la parabola di Koistinen, personaggio protagonista del film, ripercorre gli elementi narrativi ed estetici di cui il regista si serve per mettere in forma una propria visione del mondo, gelida e impassibile, pregna di malinconia. Koistinen, come spesso accade ai personaggi dei film di Kaurismaki, abdica alla propria ansia di ribellione, non reagisce agli eventi che gli accadono, neppure di fronte alla crudeltà. Queste remissività e passività non sono sintomo di derealizzazione, ma chiave interpretativa di una visione del mondo al quale si oppone la non belligeranza, un atto di forza morale e di saggezza. L’arrendevolezza dei personaggi di Kaurismaki diventa "ideale cognitivo", dove l’etica passa attraverso scelte estetiche.

Rinaldo Censi nel suo articolo pone in evidenza la mancanza di ironia che spesso nei film di Kaurismaki costituiva l’altro polo della malinconia. Ne Le luci della sera questa ironia resta soffocata o più semplicemente assente: manca un elemento di contrappunto in una visione del mondo che non è certo il migliore dei mondi possibile. Alcune inquadrature e sequenze del film dimostrano come l’assenza di ironia raggeli, senza valvola di sfogo, lo sguardo deluso di fronte al cinismo imperante: nessuna emozione modifica i tratti del volto di Koistinen, nessuna psicologia codifica la tipologia del personaggio. Il film si chiude con un’immagine che ricorda il cinema di Chaplin: un uomo solo, abbandonato e un cane, poi due mani che si stringono: un’ipotesi di aiuto, uno spiraglio di speranza.

Una, dieci, cento storie del cinema è la "questione di metodo" che si pone Ermanno Comuzio, passando in rassegna le Storie del Cinema che sono state editate dopo il secondo dopoguerra, quando ormai tutti erano d’accordo nel riconoscere al cinema dignità d’arte. L’occasione per questa panoramica critica sulla storiografia del cinema è offerta da una nuova pubblicazione a firma di Guido Oldrini, per la casa editrice Le Lettere, dal titolo Il cinema nella cultura del Novecento. Mappa di una sua storia critica.

Limitandoci alle Storie del Cinema editate e scritte in Italia recentemente, Ermanno Comuzio fa una distinzione tra storie redatte da un solo autore e storie collettive. Delle storie di un solo autore, unicum in Italia è la "fatica" di Gianni Rondolino pubblicata da Utet in tre tomi nel 1977 e rieditata in un volume solo, aggiornato nel 2000. La più monumentale delle Storie del Cinema scritta a più mani è quella curata da Gian Piero Brunetta per le edizioni Einaudi, in sei volumi, che affronta la storia delle cinematografie nazionali senza dimenticare questioni teoriche e metodologiche. La più recente e la più agile di queste storie collettive è quella curata da Paolo Bertetto, edita da Utet nel 2002 con il titolo di Introduzione alla Storia del Cinema. Autori, film, correnti, che rientra nella logica sintetica del manuale, del breviario propedeutico.

Arrivando alla storia scritta da Oldrini, per Comuzio è evidente che la prospettiva del volume è quella di un’analisi più ampia e globale della storia della cultura del Novecento, di cui il cinema è un aspetto, una delle manifestazioni, perdendo però una sua specificità estetica. L’ampliamento del campo a tutta la cultura, seppur aggiunge molte cose, fa pagare un prezzo alto al cinema che non è più visto come "occhio del Novecento", luogo per eccellenza della concentrazione e della produzione delle grandi mitologie del secolo. Si dimostra così che la Storia del Cinema è ancora campo aperto a metodologie controverse.

M il "mostro" è tra noi. La psicopatologia del serial killer e il suo impatto con lo spettatore è l’articolo scritto da Cesare Secchi, che analizzando il film di Frizt Lang individua alcuni momenti del racconto che pongono lo spettatore in una posizione emotiva di empatia con il personaggio del mostro. La vicenda si svolge durante la Repubblica di Weimar logorata dalla guerra. In questa società abbandonata a se stessa polizia e malavita sono i gruppi sociali più strutturati, somiglianti l’uno all’altro. Entrambi si mettono alla caccia del mostro per fare a loro modo giustizia. I primi a catturarlo sono i malviventi che lo sottopongono a un processo. È nel corso di questo processo che ha luogo il lungo monologo del mostro, momento apice di identificazione ed empatia dello spettatore con l’assassino. Di fronte al drammatico racconto del mostro della propria esperienza emotiva interiore due sono gli spettatori interni al film: il tribunale dei malviventi, che ha un moto primitivo e regressivo di vendetta (segno di labilità emotiva del gruppo) e l’avvocato difensore, il solo personaggio che ripercorre interiormente le dinamiche del serial killer. La posizione dell’avvocato difensore fa da tramite a quella dello spettatore reale, quindi esterno al film. Se da un lato ascoltare la cause dell’imputato, più che identificazione empatica è assoluzione del proprio compito "professionale", dall’atro lo spettatore reale, di fronte al racconto dell’impulso che porta il mostro alla ripetizione dell’orrore, è mosso da compassione verso il dolore, senza condivisione della follia.

Citiamo inoltre altri due approfondimenti: Le lucide trame della fatalità, in cui Tullio Masoni ripercorre i film di Claude Chabrol cercando i legami con la tradizione del naturalismo francese del XIX secolo che costituisce la ricca fonte delle trame narrative dei suoi film e Cinema Turco al femminile, dove Asli Selçuk propone, in sintesi diacronica, le donne del cinema turco, dalle prime dive del muto (come Madame Kalitea, Rosalie Benliyan, Eliza Binemeciyan, Lusi Arusyag, Anna Mariyevic) sino alle registe più recenti (Canan Evcimen, Fide Motan, Sunar Kural, Jülide Övür e Nacef Ugurlu).

Anna Gilardelli


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