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Jon Fosse

Teatro


Roma, Editoria & Spettacolo, 2006, pp. 396, euro 15,00
ISBN 888903664-8

Jon Fosse, drammaturgo poeta e romanziere norvegese classe 1959, staziona nei piani alti del teatro contemporaneo e l’ascesa è stata rapidissima in patria, dove in dieci anni è diventato l’autore più rappresentato dopo Ibsen, e altrettanto veloce in Europa, Stati Uniti, Giappone, Australia. In Italia ha trovato ampio consenso nei cartelloni di importanti rassegne teatrali, quali Quartieri dell’Arte di Viterbo, Intercity a Sesto Fiorentino, Asti Teatro. Walter Malosti con la messinscena di Inverno, anche interprete con Michela Cescon, ha ottenuto il Premio Ubu 2004 come migliore novità drammaturgia straniera. Con ammirevole tempestività, frutto di attenta osservazione delle tendenze innovative maturate sulla scena internazionale, Editoria & Spettacolo raccoglie sotto il titolo Teatro un’antologia di testi dello scrittore scandinavo affidata alla cura di Rodolfo di Giammarco.

La scrittura di Fosse si presenta scarna, minimale, senza fronzoli, domina il non-detto, sviluppa un linguaggio freddo e asettico, che costruisce atmosfere turbate, a momenti di claustrofobia e ossessione. Sono il naufragio della famiglia e della coppia, la deriva morale del maschio e la solitudine protettiva e cannibalesca della femmina, i temi dai quali si enuclea il repertorio. I personaggi si muovono in un mondo in sospensione. La loro vita si consuma nello squallore di un presente eterno, senza possibilità di riscatto o scosse emotive.

Apre il volume il dramma Il nome (Namnet del 1994, traduzione di Graziella Perin cui competono anche gli altri testi ad eccezione di Sogno d’autunno affidato a Fulvio Ferrari), la piéce della celebrità per il suo autore anche grazie alla messinscena di Thomas Ostermeier. Divisa in tre scene, l’opera è ambientata in una casa arroccata sulla costa davanti al mare, dove fa ritorno in famiglia la figlia Beate, incinta, accompagnata dal suo ragazzo che se ne sta sempre seduto sul divano a leggere un libro. Ad accoglierla ci sono la madre, mezza pazza, e il padre, uomo taciturno e indifferente, che non esternano la minima emozione. Si aprono tensioni silenziose e soffocate dall’atteggiamento di sconcertante tranquillità palesata dai protagonisti. Questa situazione immobile e paludosa è mossa dall’arrivo improvviso di Bjarne, un vecchio amico della ragazza con trascorsi amorosi. Bjarne affonda il colpo, abbraccia e bacia la ragazza davanti agli occhi del suo attuale ragazzo e futuro padre, il quale in silenzio prende il suo fagotto, abbandona la casa e se ne va con la sua vecchia macchina. È l’apoteosi dello squallore e soprattutto della solitudine: anche Bjarne torna a casa e la ragazza rimane sola a guardare alla finestra, senza futuro.

Anche in Qualcuno arriverà (Nokon kjem til a komme datato 1992) l’elemento di disturbo è dato da una presenza esterna alle dinamiche relazionali dei personaggi, una giovane donna e l’amante cinquantenne che hanno deciso di vivere in una casa – rifugio lontana dal società, una vecchia e fatiscente dimora ubicata in un ''luogo deserto, su di un piano al limite di uno strapiombo, con la vista sul mare aperto'', come recita la didascalia di apertura. La donna avverte il fiato di un fantasma, che si concretizza nell’inatteso arrivo di un Uomo, subito impegnato in insistenti proposte sessuali. La presenza di tale figura, ossia di colui che ha venduto loro la casa dove visse e morì la nonna, sposta le prospettive umane e sviluppa sette scene ossessive di maniacale intrusione nella vita della coppia incapace di trovare una soluzione. Tuttavia il compagno prova una reazione, si dimostra geloso e accusa la donna di tradimento. La scoperta del degrado dei locali interni guida rapidamente alla consapevolezza della nuda realtà, alla perdita delle illusioni e dei sogni romantici. ''Soli insieme / soli l’uno nell’altro'', diranno alla fine i due sconfitti amanti seduti sulla panchina del giardino.

E la notte canta (Natta syng sine songar), testo a cinque personaggi scritto da Fosse nel 1995 si affianca a Il nome, con il quale condivide la presenza di una giovane coppia con il figlio già nato, caratterizzata dall’inedia del partner maschile, un mancato scrittore imprigionato nella misantropia, cui si contrappone la vitalità della compagnia di natura marcatamente mondana e trasgressiva tanto da consumare con un altro uomo, Sebastian, un doloroso tradimento. Tutto avviene rapidamente, nel tempo di un pomeriggio e di una sera, e si risolve in modo crudo e spietato. Tra i verbi più usati dai personaggi c’è ''andare'', ossia abbandonare la propria dimensione. Ma la parola non permette la fuga, ad eccezione di quanto dice alla fine del dramma la ragazza, ''si è sparato'', riferendo l’abbandono della vita del ragazzo – padre.

È un cimitero l’ambiente in cui si colloca la scena unica di Sogno d’autunno (Draum om Hausten del 1998). Fosse approfondisce la poetica dell’attesa e dell’oblio, intrecciando più livelli narrativi sfasati nel tempo e nelle azioni. Nell’incontro tra l’Uomo, sposato con figli, e la Donna, si pone il vuoto di un comune vissuto assai misterioso. Non accade nulla, frammenti di vita di incrociano nell’effimera manciata di pochi minuti. Si muovono spettri di vecchi nomi, case antiche, remoti amori e anziani genitori in attesa di sepoltura. Emerge l’incapacità dell’Uomo di rapportarsi alla transitorietà della vita, rimanendo bloccato in una situazione di attesa e di straniamento. Alla fine, come in altre commedie di Fosse, l’Uomo se ne va senza lasciare il segno della sua presenza.

In Inverno (Vinter), testo scritto nel 2000, l’ambientazione si alterna tra lo spazio aperto di un parco cittadino e lo spazio chiuso di una camera d’albergo, dove si incontrano un Uomo e una Donna, forse un timido impiegato marito e padre e una angelicata prostituta. Danno vita ad una lotta di seduzioni, incomprensione e silenzi, molto simile ad una tormentata danza di morte. Li unisce la condizione dell’infelicità quotidiana, cui contrappongono una certa volontà di fuga dallo squallore esistenziale. Il delirante gioco al massacro diventa profondo turbamento e provoca labilità psichica e fisica manifestata da silenzi e oscenità erotiche, tenerezze e livori, urla e dolci parole sussurrate.

Chiude questa preziosa antologia offerta da Editoria & Spettacolo La ragazza sul divano (Jenta i sofanen, 2002), complesso e misterioso testo a nove personaggi costruito su una sorte di voce narrante, una Donna matura che nel quadro che sta dipingendo con mille frustrazioni artistiche e creative, riproducente una ragazza sdraiata sul sofà, ripercorre frammenti di vita. Scava l’adolescenza, si ricorda di essere stata madre senza il marito marinaio, e pesca dalla memoria la figura della sorella, sua maestra di scaltrezze sessuali. La piéce si sviluppa in modo crudele, non salva nessuno, smaschera le ipocrisie e svela una teoria impressionante di tradimenti, vigliaccherie, perversioni della carne e dell’anima.

Per meglio capire il pensiero e il mondo di Jon Fosse è utile leggere l’intervista rilasciata a Rodolfo di Giammarco e contenuta nel volume Teatro. A proposito dei meccanismi che portano alla stesura del copione, si legge: ''Non uso mai direttamente esperienze personali, se lo facessi la mia scrittura ne soffrirebbe. Devo scrivere partendo dal niente, tutto deve essere nuovo, per così dire. E per farlo, devo in qualche modo allontanarmi, devo sentirmi come una persona che esegue un lavoro, che consiste nello scrivere (…). Quando scrivo mi pongo in ascolto, della realtà forse, o forse di qualcos’altro – a man mano che avanza il testo, procede sempre più verso ciò che ho già scritto – e quello che scrivo è esattamente ciò che è giunto a me dall’essermi posto in ascolto''. In un’altra intervista Fosse dichiara che i suoi personaggi teatrali sono ''voci'' e non ''corpi''.



Massimo Bertoldi


Copertina

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