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Teatro e storia


26, anno XIX, 2005, euro 30,00

Il numero di «Teatro e Storia» XIX/2005 si  presenta particolarmente ricco, vario e con una novità: alcune lettere aperte che forniscono testimonianze su spettacoli nella forma della "non-recensione". Sette lettere in tutto che si frappongono ai saggi di un numero strutturato in più parti, ma che indirizza il centro della propria indagine sul problema, ancora aperto e compiutamente da sondare, della laboratorietà.

Teatri laboratorio è infatti il titolo della sezione che occupa il corpo centrale della rivista con due saggi e un omaggio a Roberto Vescovi, direttore e regista del Teatro Tascabile di Bergamo, da poco scomparso. Le pagine a lui dedicate propongono alcuni suoi interventi (annotazioni, ricordi e lettere) che anticipano la pubblicazione del volume – di prossima uscita presso Bulzoni – che raccoglierà i suoi eterogenei scritti. I due saggi, opera di Franco Ruffini e di Mirella Schino, sono invece il frutto di una lunga riflessione sui Teatri Laboratorio nella storia del Novecento che ha avuto come sedi di confronto il convegno internazionale «Why a Theatre Laboratory?» (Ĺrhus, 4-6 ottobre 2004), organizzato dall'Odin Teatret e le sessioni dell'Università del Teatro Euroasiano tenutesi a Scilla e Caulonia nel 2002, 2003 e 2004.

Lo studio Franco Ruffini, Stanislavskij e il «Teatro laboratorio», pone la questione di quale sia la natura del 'teatro laboratorio' e ne individua la matrice nelle esperienze compiute da Stanislavskij dal 1910-1912 fino agli ultimi anni della sua vita, caratterizzati dall'attività svolta all'interno dello Studio Operistico-Drammatico, qui considerato «un teatro laboratorio estremo». Il saggio, pur affrontando in modo analitico e articolato le varie fasi del "metodo" di Stanislavkij, non abbandona mai il suo assunto generale nel tentativo di comprendere quale sia l'essenza del 'teatro laboratorio', definita qui come l'esperienza di «una comunità teatrale che, sotto la guida di una guida spirituale, lavora per incorporare come seconda natura la condizione creativa [...]». La definzione non conclude però il saggio che, sempre seguendo la traccia del magistero stanislavskiano, cerca di individuarne gli sviluppi più estremi e profondi, quelli che attraverso la «scoperta della musica» - secondo Ruffini «la vera rivoluzione del sistema» - congiungono Stanislavskij a Grotowski, ma corrono il rischio – probabilmente calcolato - di uscire fuori dallo spettacolo. 

L'intervento di Mirella Schino (La corsa della Regina Rossa. Obiezioni e proposte sul problema dei «Teatri Laboratorio») rivolge invece la sua attenzione ai momenti di frattura e di discontinuità che emergono dallo studio dei 'teatri laboratorio' del primo e del secondo Novecento.  La studiosa, attraverso un lungo e articolato percorso - che diviene il vero oggetto del suo saggio - compie la sua indagine fondandola su un'argomentata contestualizzazione storica che la porta a evidenziare macroscopiche diversità tra le esperienze della prima e della seconda metà del secolo e a ridimensionare di conseguenza il presupposto dell'esistenza di una continuità operativa, avvertita, quest'ultima, solo a posteriori, seguendo una linea di lettura più teorica che storicamente fondata. Tale percezione di affinità però, fortemente sentita dai protagonisti del secondo Novecento, pretende – secondo la studiosa –  attenzione e si configura come qualcosa con cui, comunque, dover fare i conti.

La sezione che apre il volume reca il titolo Nuovi e antichi dèi con un saggio di Raimondo Guarino (La presenza degli dèi) incentrato sulla presenza dei miti e delle divinità pagane nei festeggiamenti di età umanistico-rinascimentale. L'analisi si fonda sulla ricostruzione di eventi spettacolari celebrati a Padova, nel 1466, in occasione di una giostra in onore del patrizio veneziano Ludovico Foscarini, a Pesaro, nel 1475, per le nozze di Costanzo Sforza e Camilla d'Aragona e a Venezia, nel 1493, per le onoranze tributate a Beatrice d'Este, moglie di Lodovico il Moro, in visita alla città. Segue lo studio di Veronica Pari che, attraverso la pubblicazione di fonti inedite, ripercorre l'entrata trionfale di Borso d'Este a Reggio Emilia (1453) caratterizzata dall'adozione dei modelli del trionfo antico e bizantino.

La sezione dedicata a Nicolaj Dmitrevič Volkov, curata da Mirella Schino, Marina Baglioni e Barbara Gabriele, propone, in traduzione, alcuni brani tratti dalla biografia in due volumi dedicata a Vsevolod Mejerchol'd, la prima scritta sul regista russo e pubblicata, nel 1929, con la supervisione e la collaborazione dello stesso Mejerchol'd. I brani scelti, tutti tratti dal primo volume e finora mai editi in italiano, riferiscono del suo arrivo a Mosca, dell'apprendistato presso l'Accademia filarmonica di Nemirovič-Dančenko, delle prove svolte a Puškino nel neo-nato Teatro d'Arte di Mosca e del Primo Studio del Teatro d'Arte, diretto da Mejerchol'd nel 1904 . 

La sezione Teatro Euroasiano, con i saggi di Ferdinando Taviani, Maki Isaka Morinaga e Gioia Ottaviani solleva il problema del rapporto tra amatorialità e professionismo nel teatro concentrandosi sull'esperienza primonocentesca del riformatore teatrale giapponese Osanai Kaoru.

Una riflessione rilasciata dall'attrice e regista allieva di Grotowski Annet Henneman, dal titolo Se sia teatro apre la sezione Parerga, l'ultima di questo corposo numero di «Teatro e Storia», all'interno della quale è possibile leggere l'intervento di Franco Ruffini Grotowski: memoria e discontinuità frutto di un ampliamento di quanto esposto dallo studioso al simposio conclusivo della XIV sessione dell'ISTA organizzata dall'Odin Teatret e dal "Centro Studi Jerzy Grotowski" tenutasi a Wroclaw, presso il Teatro Swiebodzki, il 9 e 10 aprile 2005. L'autore si interroga sui vuoti e sulle reticenze rintracciabili negli 'edifici' teorici costruiti da Grotowski nel suo libro Per un teatro povero che cerca di integrare attraverso una mirata analisi delle fasi e delle modalità progettuali messe in opera dal regista per lo spettacolo Il principe costante. Lo studio, che pone in relazione il lavoro dell'artista polacco con quello di Stanislavskij sottolineandone differenze e derivazioni arriva, dopo lungo percorso, a constatare l'inevitabilità delle ellissi riscontrate nelle pagine scritte da Grotowski poiché «il 'processo interiore', l'aspetto interiore del lavoro» non può essere insegnato. Non appartiene al mondo normale degli esercizi. Può solo essere trasmesso: in un mondo a parte, che certo non può essere costruito nelle pagine di un libro».

La sezione ospita inoltre un testo di Claudio Meldolesi - presentato durante i lavori del seminario Attori e cantanti fra Otto e Novecento (Firenze, Teatro della Pergola, 20-21 gennaio 2005) - dal titolo I nostri attori ottocenteschi come persone simili a persone. In particolare, sui rapporti tra fra quelli «romantici negativi», «grandi» e «artisti». Il saggio si apre con un toccante tributo a Leo De Berardinis in cui viene riconosciuto «un continuatore attivo della linea di Attore artista creata dalla Duse» e prosegue cercando di definire - indicando stimolanti indicazioni di metodo – le fasi cronologiche e le differenti caratterizzazioni estetico-esistenziali connotative dell’arte degli attori ottocenteschi che agirono nel «"secolo lungo": che corse dalla Rivoluzione francese alla prima guerra mondiale».  Il magistero di quegli attori - ancora compiutamente da indagare nelle infinite sfumature della loro recitazione –  permise loro «di essere al contempo se stessi, personaggi e portatori del dramma; mentre erano esperti della vita allo stato sospeso» e di estendere - come nel caso di Modena, di Salvini e della Duse - «con il loro campo realizzativo le possibilità date dell'esistenza». L'eco della loro arte è avvertibile, come una sottile linea di continuità, nel lavoro della generazione «dell'Attore-regista del nostro tempo» cui ha contribuito a dare forma e sostanza.

Chiude il ricco volume la recensione-saggio di Ferdinando Taviani, Don Giovanni nuovo. Il libro d Silvia Carandini e Luciano Mariti con «Il convitato di pietra» di G.B. Andreini che ampiamente commenta, l'edizione del Convitato di pietra  di Giovan Battista Andreini, curata e introdotta da Silvia Carandini e Luciano Mariti, per i tipi dell’editore Bulzoni. Oltre a rilevare l'importanza della pubblicazione – compiuta sulla base di due diversi manoscritti del testo conservati a Roma e a Firenze - e la novità del dramma composto dall'Andreini (1651), Taviani ricostruisce brevemente la storia delle versioni dedicate a Don Giovanni – da Tirso de Molina (1630), a Molière (1665) per giungere fino a quella di Mozart-Da Ponte e alla mitografia sul personaggio che ne è conseguita – rilevando come «l'opera dell'Andreini […] non è uno dei tanti Don Giovanni». L'aspetto peculiare di questo dramma sta infatti nel suo essere «non il documento di uno spettacolo, né una piéce circolante fra i libri, ma un'ipertrofica potenzialità sia di libro che di spettacolo», una particolare commistione «di tutto il teatro possibile: sacro e profano; mitologico e cristiano; recitato e cantato; fatto di lazzi e di solennità scenografiche». Un testo «capace di sfondare i compartimenti dei generi: di traghettare e unificare le mode sceniche spagnole, italiane e francesi; di rendere complementare quel che sembra opposto: la spinta verso l'osceno e quella verso l'insegnamento severo e doloroso». Ma molto di più è dato leggere nella singolare recensione di Taviani, anch'egli, sulla scorta di Andreini, capace di mescolare e tenere uniti insieme più generi di scrittura.



Francesca Simoncini


copertina

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